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SPIRITO UMANO E INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Da Pinocchio al cyberuomo

Che cosa comporta per noi oggi il grande incremento della digitalizzazione, accelerato ulteriormente dalla pandemia?

Il dialogo che riportiamo qui di seguito è tratto della serie di incontri online dell’inverno 2021 trasmessi da Dornach e intitolata “vita e società in cambiamento”. L’iniziativa è promossa dalla direzione del Goetheanum, con l’intenzione di offrire spunti di riflessione sull’antroposofia di fronte alle sfide del presente. Il dialogo originale è disponibile a questo link.

Relatori:

Edwin Hübner, per anni insegnante di matematica e oggi professore di pedagogia dei media all’università di Stoccarda;

Andreas Luckner, filosofo, docente presso l’università di Stoccarda;

Christiane Haid, direttrice della sezione delle Belle Lettere al Goetheanum.

Trascrizione e traduzione a cura di Alessandra Coretti

 

Apre l’incontro trasmesso via zoom la moderatrice, Christiane Haid, che invita gli ospiti a condividere una definizione di digitalizzazione. Edwin Hübner, il professore, inizia spiegando il passaggio da ciò che è analogico (meccanico) a ciò che è digitale (numerico). Un esempio del primo caso è il fonografo inventato da Edison: un ago che gira attorno a un cilindro incide una membrana e restituisce la forma di una vibrazione elettrica. Se si scansiona questa vibrazione elettrica un certo numero di volte al secondo, misurandone i valori del voltaggio, è possibile tradurre quei valori in numeri, e sulla base dei numeri ottenuti è possibile formulare degli algoritmi. Un segnale analogico, dunque, può venir così convertito nel suo equivalente digitale, che è costituito da una sequenza numerica.

Thomas Edison, il fonografo

Gli fa eco il filosofo, Andreas Luckner, aggiungendo che la digitalizzazione e internet, legati ai mezzi di comunicazione disponibili oggi, sono innovazioni tecniche che funzionano in modo diverso da attrezzi o macchine; sono sistemi ideati per trasportare informazioni, dati e, più propriamente segnali, i quali ci permettono di essere attivi in più luoghi allo stesso tempo. La digitalizzazione è dunque un medium di trasporto.

A questa caratteristica – completa il professore – si aggiunge il fatto che mediante la digitalizzazione è possibile che il pensiero umano
si imprima in ogni cosa che si muove meccanicamente, ed è possibile che la macchina diventi autonoma.

Interviene la moderatrice: «La questione riguarda il rapporto tra l’intelligenza artificiale e lo spirito umano. In particolare, il transumanesimo ripone molte speranze in questa relazione, nel fatto che l’intelligenza artificiale si sviluppi al punto tale da diventare sempre più simile allo spirito umano. Come è da considerare ciò?»

A parere del professore, di “intelligenza artificiale” si parla, di fatto, dalla metà degli anni ’50, a partire dalla conferenza di Dartmouth (1956) in cui essa venne annunciata per la prima volta. A quel tempo si parlava di “cervelli elettronici”. Si è studiato il pensiero umano, la logica, e da questa logica è stata tratta un’algebra che può esser convertita in un comando. Dopo un grande lavoro per scoprire come realizzare tale conversione sono stati creati i primi programmi. Si sono poi aggiunte le reti neuronali artificiali, le quali imitano la modalità di funzionamento delle cellule cerebrali. Tutto questo, tuttavia, mantiene una fondamentale staticità: «Ogni tecnica è sempre pensiero umano “condensato”; indipendentemente dal livello di intelligenza che la tecnica può avere, essa è sempre qualcosa che si è originato nel passato e che adesso è ancora qua. L’intelligenza artificiale è nata quando si ebbero a disposizione masse di dati, masse gigantesche che oggi vengono esaminate mediante algoritmi; grazie a queste analisi si individuano delle regolarità ricorrenti, sulla base delle quali si presuppone che gli stessi valori si ripeteranno nel futuro. Tali ricorrenze vengono allora proiettate nel futuro in forma di probabilità. L’intelligenza artificiale è dunque sempre esperienza del passato (anche se si tratta di un millesimo di secondo fa), che viene proiettata nel presente e nel futuro. Essa è puro passato. L’unico elemento che contiene futuro è il pensare umano – che è in grado di progettare una nuova macchina».

Nel pensiero del filosofo, tutte le tecniche sono di fatto estensioni dell’umano, proiezioni dei suoi organi; il martello è idealmente l’estensione del braccio, così come il sistema telegrafico rappresenta un’esportazione del sistema nervoso. Le estensioni, in quanto tali, in un certo senso traspongono all’esterno determinate facoltà umane.

«La domanda è: perché lo facciamo? Perché trasponiamo certe capacità al di fuori di noi? Non sarebbe forse meglio continuare a detenerle? È naturale che a questa trasposizione di capacità all’esterno si colleghi strettamente il tema della perdita delle competenze che può verificarsi. Nel momento in cui mi servo di una tecnica … perdo in un certo modo la capacità di fare qualcosa da me. Oggigiorno molte persone tendono infatti a riappropriarsi di alcune competenze, e questo fenomeno spesso si accompagna a una certa ostilità nei confronti della tecnologia. Bisogna quindi valutare a fondo il perché lo facciamo».

Dal punto di vista del professore lo facciamo perché la tecnica è un grande elemento di liberazione per l’uomo, basti pensare che 300 anni fa un viaggio da Stoccarda a Dornach sarebbe stato intrapreso a cavallo e con gran dispendio di tempo.

Per il filosofo, invece, se è vero che le macchine ci sgravano da una serie di fatiche non è altrettanto vero che esse ci alleggeriscono il lavoro in generale. Spesso si crede che la tecnica sia fatta per assumersi il carico del lavoro umano, ma non era questo il pensiero di chi inventò le prime macchine: «La tecnica non ci libera dal lavoro, bensì ci libera nel senso che ci permette di esercitare attività che altrimenti non avremmo modo di praticare. … Diventiamo cioè liberi di esercitare altri lavori».

«Proprio in questo» riprende il professore «si trova il concetto di fondo di ogni pedagogia e di ogni scuola oggi: mettere i ragazzi in condizione di usufruire in modo costruttivo di questa libertà. Il pericolo che la libertà comporta è la comodità, e qui ci si muove su un crinale molto sottile. La tecnica, inoltre, divide l’umanità: quelli che ce l’hanno ottengono ancora di più, quelli che non ce l’hanno corrono costantemente il rischio che venga loro portato via qualcosa».

A questo punto interviene la mediatrice: «Passiamo ora al tema della differenza (o non differenza) tra intelligenza artificiale e spirito umano; i transumanisti, per esempio, non operano alcuna distinzione tra i due. Vorrei che affrontassimo più dettagliatamente la visione del mondo propria del transumanesimo alla luce della digitalizzazione – ho infatti l’impressione che la forza trainante in questa direzione stia dietro a ciò che stiamo vivendo in questo momento».

Il punto di vista del filosofo: «Il transumanesimo – lo dico volentieri – è un materialismo che dispera di se stesso. In un certo modo è una forma di pensiero che trae origine dalla “tecnica pensante”: con ciò intendo un pensiero che è vincolato allo scopo di osservare come sia possibile intervenire sul mondo, quali obiettivi si possano raggiungere, quali forze e risorse si possano sfruttare. Naturalmente, questo è un determinato modo di pensare. Noi possiamo pensare così, ma non è che dobbiamo farlo. Tale forma di pensiero è comunque molto diffusa nella vita quotidiana, e non rappresenta necessariamente qualcosa di negativo; assume un carattere problematico solo quando si rivolge a ogni cosa possibile, quando qualsiasi oggetto viene considerato esclusivamente in prospettiva tecnica, quando addirittura l’agire è subordinato a prospettive tecniche, che sono sempre atte a perseguire un preciso scopo.

 A quel punto ricaviamo una visione assai riduttiva di ciò che è il nostro operare.  Il transumanesimo è l’idea che noi di fatto possiamo espandere anche i nostri processi interiori e spirituali. É una forma conseguente del pensiero della tecnica, che si spinge al punto da coinvolgere l’elemento umano stesso: l’elemento umano viene cioè osservato da fuori come un oggetto cui dare forma affinché persegua determinati scopi. E si può inoltre dire che in questa prospettiva determinati aspetti dell’esistenza come vecchiaia, malattia e morte vengono visti come disfunzioni, come elementi che dovremmo migliorare, o, meglio ancora, eliminare. Naturalmente esistono tante posizioni diverse nel panorama del transumanesimo, ma una è l’idea trainante che sottostà a tutte: cioè che queste apparenti disfunzionalità nell’essere umano vengano definitivamente cancellate».

Da Pinocchio al cyberuomo

«Ho sempre l’impressione» continua il professore «che il transumanesimo sia come una religione nascosta, una sorta di nuovo mito segreto. Perché, in fondo, in esso si risolve tutto quello che ha impegnato l’umanità per millenni: il problema della vecchiaia, la questione dell’immortalità (che è presente in tutte le culture). Anche il problema della reincarnazione viene indirettamente affrontato dal transumanesimo. Se si è dell’opinione che il cervello sia una macchina di carne comparabile con un computer, se ci si immagina l’essere umano come una macchina, si pensa, ovviamente, che in quanto macchina sia possibile migliorarlo (nessuno pensa però al confronto “reale”: se butto in acqua un computer esso smette di funzionare; il nostro cervello, invece, consiste per l’80% di acqua». Nell’ultimo libro di Yuval Noah Harari, Homo deus (Breve storia del futuro, Bompiani 2015) si insiste sull’idea che scientificamente l’essere umano è un insieme di algoritmi che per principio sono migliorabili. La tesi dell’autore è che se un algoritmo può decidere meglio dell’essere umano, è logico che l’essere umano affiderà le sue decisioni a un algoritmo. Ma allora saremmo di fronte alla fine di tutto ciò che sono state la democrazia, la cultura e la formazione fino a quel momento. Il difetto nell’immagine transumanista dell’uomo risiede proprio nell’assimilazione del cervello a una macchina, nell’idea che lo spirito sia un prodotto accessorio del cervello, un suo epifenomeno.

«Io credo che un compito del movimento antroposofico sia di prendere chiaramente posizione nei confronti di ciò che esso stesso osserva nell’essere umano. … In quanto umano, mi osservo come essere che ha facoltà di percepire cose esterne mediante il proprio corpo; sperimento come interiormente i miei sentimenti reagiscano a ciò che ho percepito; realizzo e trovo in me delle leggi che regolano questi aspetti. Nell’ottica del transumanesimo tutto questo viene prodotto dal cervello. Ma si rischia di cadere nel paradosso: come ha potuto, infatti, questo cervello generare l’idea (per esempio) del transumanesimo o dell’antroposofia? Devo fidarmi di questo cervello o forse ce ne è uno migliore? Può essere che alcune pericolose ideologie non siano che una funzione errata del cervello?

Credo che Rudolf Steiner abbia individuato un aspetto molto centrale sostenendo che tutti questi elementi sono solo contenuti del mio pensiero. Ma dove è la loro origine? Nel pensare stesso. Se procedo seguendo un criterio fenomenologico, come prima cosa devo osservare il mio pensare (a questo si avvicinò molto Heidegger con la domanda metafisica), devo osservare la domanda. Allora inizia l’osservazione interiore, che può essere obiettiva tanto quanto quella esteriore, e in tale osservazione affiora un primo elemento sovrasensibile: il mio pensiero. Ma qui si entra già nella scienza dello spirito».

Prende la parola il filosofo, che conferma l’anelito del transumanesimo al superamento della dimensione corporea e all’immortalità: «Nel transumanesimo c’è effettivamente una certa (forse debole) idea che l’uomo è in grado di trascendere se stesso, che è in grado di trasformare se stesso. Anche per l’antroposofia la trasformazione rappresenta un elemento essenziale per l’essere umano. Su questo punto, però, il transumanesimo assume una coloritura tecnologica: l’uomo viene visto come un essere biologico che è disponibile al miglioramento e al progresso (e bisognerebbe qui aggiungere i criteri di bene e male per definire cosa si intenda con “miglioramento”. I transumanisti hanno determinate idee in merito, idee che tuttavia appartengono al passato). La trasformazione che l’uomo opera mediante le sue stesse forze, dunque l’autotrasformazione, sarebbe qui un’immagine da contrapporre al transumanesimo. Sarebbe un’immagine molto più ricca, che contiene un assai più grande potenziale di possibilità e di futuro.

Un altro aspetto importante è che nel transumanesimo vediamo qualcosa che è dato, e che forse si lascia cogliere molto meglio mediante un modo di pensare non tecnico. Forse questo pensiero della tecnica come ultima conseguenza del transumanesimo, questa tecnica pensante che si applica all’uomo visto come un oggetto modificabile in vista di scopi predefiniti, raggiunge qui il suo ultimo limite, lasciando libero lo sguardo su ciò che ancora potrebbe – o dovrebbe – esserci al di là».

Continua la riflessione il professore, che invita a considerare gli aspetti positivi legati all’uso delle nuove tecnologie. Che, per esempio, una persona tetraplegica sia in grado di far muovere un robot con la forza del proprio pensiero grazie a un chip impiantato nel cranio, è un risultato sensazionale. Tuttavia, cresce la tendenza a voler trasporre all’esterno anche la più originaria facoltà dell’uomo, affinata nel corso di millenni di meditazione, cioè la sua capacità di trasformarsi animicamente e spiritualmente. «Se trasferisco ogni facoltà all’esterno e resto interiormente passivo, divento un attributo della macchina. Un assoluto dovere per il presente è dunque quello di preservare un’evoluzione spirituale interiore. Se voglio conservare la mia autonomia nel mondo delle macchine, se voglio vivere nel mondo delle macchine restando umano, interiormente devo evolvermi fino al punto da cogliere l’elemento spirituale che è nel mondo. … Rudolf Steiner ha indicato la via per impadronirsi gradualmente degli organi atti a percepire ciò che opera al di là del mondo fisico. Se non si intraprende questo sforzo può verificarsi un disastro, perché alla fine verrebbe a mancare uno scopo. Si può pensare che lo scopo ci sia: un’intelligenza che si svincola dall’uomo e che conduce un’esistenza propria (questo è il cosiddetto postumanesimo), tanto che l’uomo diventa un “essere intermedio”. Ma l’uomo non può ridursi a un essere intermedio: nel bene e nel male, infatti, egli è il motore che porta avanti l’evoluzione del mondo».

La moderatrice si collega a quanto detto e aggiunge: «Il problema della visione transumanista» «è nel diffondersi dell’idea che attraverso la sempre più grande perfezione dell’intelligenza artificiale l’uomo prima o poi diventerà superfluo. Mi ha colpito il fatto che nel libro Sapiens (Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità, di Yuval Noah Harari, Bompiani 2014) si ribadisca che la domanda fondamentale del presente, dal punto di vista sociale, politico e filosofico, sia “cos’è l’uomo?”. Secondo me questa domanda non è risolta, anche se le possibilità tecniche si sono già spinte a un livello molto avanzato; al contempo essa è anche un’occasione per chiederci che cosa sia l’uomo in modo diverso che nei secoli passati – o forse dovremmo chiederci “cosa vogliamo essere in quanto uomini?”». La crisi legata al Coronavirus ha reso ancora più urgente questa domanda, anche alla luce della fortissima diffusione di statistiche e di procedimenti scientifici nel quotidiano. Il tipo di vita che deriva dalle misure di contenimento è umanamente giovevole o si dovrebbero cercare altre vie, insistendo sulla domanda dell’uomo, al fine di guidare la trasformazione della società in una direzione più costruttiva?

Secondo il filosofo, forse la domanda circa l’essere dell’uomo è troppo metafisica, ed è di certo una domanda umanistica. «Nella tradizione umanistica si afferma che l’essere dell’uomo è qualcosa che deve venir tratto fuori, che non è ancora qui, e per questo è fondamentale investire sul concetto di “formazione”. Quando però nell’umanesimo si dice che l’essere dell’uomo consiste nel fatto che è ancora da sviluppare (come ha espresso chiaramente Heidegger nella sua Lettera sull’umanismo), vediamo, per così dire, solo una parte. Fino a qui si può dire che il transumanesimo continua il programma dell’umanesimo; molti transumanisti si rifanno, per esempio, a Pico della Mirandola e al concetto della dignità dell’uomo, che consiste proprio nel fatto che il suo essere sia in formazione.

Ma la parte che manca è che l’uomo stesso è il formatore del proprio essere, egli è ciò che determina l’essere, e non soltanto ciò che può venir ancora determinato (perché il processo di formazione è aperto). Trovo che Heidegger abbia individuato un punto cruciale quando afferma che l’umanesimo ha iniziato a vedere l’uomo come qualcosa di plasmabile e di modificabile ma nel senso della trasformazione esteriore; e che quindi l’umanesimo considera l’uomo in modo troppo limitato, perché l’uomo non è solo ciò che viene formato nel suo essere, ma è anche il soggetto, il promotore di questa formazione, e lo è mediante il suo essere spirituale. Per dirla in modo antroposofico, l’uomo è dunque uno spirito operante. Sia l’umanesimo che il transumanesimo non vedono questo aspetto».

FINE PRIMA PARTE – Continua