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Umanità dopo Auschwitz?

Campo di concentramento di Auschwitz - ingresso

Un dialogo tra Peter Selg* e Krzysztof Antonczyk*

A cura di Alessandra Coretti

Ogni anno la ricorrenza del Giorno della Memoria, il 27 gennaio, ci invita a confrontarci con l’Olocausto, simbolo universale di tutte le tragedie del XX° secolo. Sulla base della cura del ricordo di quei fatti, di generazione in generazione ha potuto svilupparsi una coscienza storica a livello individuale e collettivo, che richiede di venir nutrita per restare desta e viva.

La nostra relazione con il passato può esprimersi in modo duplice. Da un lato curiamo il rapporto con la storia, consapevoli che custodire il passato è una grande responsabilità che si estende, dal ricordare i fatti in sé, al ricordare le persone scomparse sulla base anche di esigue tracce rimaste. Dall’altro lato, possiamo esplorare il rapporto con la coscienza, una risorsa potentissima che si spinge ben oltre il dovere di conservare e documentare: il dialogo che riportiamo qui di seguito si concentra essenzialmente su questo aspetto.

La coscienza dell’orrore illuminando quelle tenebre, anzitutto riconoscendole e accogliendole, può dischiudere vie meravigliose verso la metamorfosi del male in impulso di vita per il futuro. Ciò che lì si è consumato può diventare un terreno straordinariamente fertile per la nascita di una volontà nuova. Una volontà di curare di forza tale, da trasformare la memoria del passato in attivo gesto del cuore, in ricordo orientato al futuro.

Buona lettura!

Alessandra Coretti
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Nella serie degli incontri Vita e società in mutamento promossi dal Goetheanum, il 21 luglio 2021 ha avuto luogo un colloquio dedicato al tema della coscienza storica. Ne offriamo qui di seguito un dettagliato resoconto. La registrazione integrale dell’incontro è disponibile a questo link.

* Peter Selg è medico, psichiatra e docente, membro della presidenza del Goetheanum e direttore dell’istituto Ita Wegman per la ricerca storica sull’antroposofia.

* Krzysztof Antonczyk è storico, direttore dell’archivio digitale del museo commemorativo di Auschwitz-Birkenau. Dal 1994 lavora come ricercatore all’interno del più grande campo di sterminio della Seconda Guerra Mondiale.

 

Peter Selg apre con una breve presentazione di Krzysztof Antonczyk, al quale è legato da un’amicizia trentennale iniziata a Cracovia. Cede poi la parola allo storico, che inizia con una descrizione del sito di Auschwitz-Birkenau, divenuto centro museale e commemorativo già a partire dal 1947 grazie all’impegno e alla motivazione dei sopravvissuti.

Auschwitz fu il polo maggiore della fitta rete di campi di concentramento allestita dai nazisti. Si stima che in quel centro tra il giugno del 1940 e il gennaio del 1945 siano state deportate circa 1,7 milioni di persone; di queste, oltre 900.000 vennero uccise subito senza venir registrate in alcun modo, mentre si sono salvate alcune tracce delle identità dei 400.000 prigionieri schedati. «Di certo», osserva Antonczyk, «parte di questa tragedia è il fatto che noi non sappiamo chi fossero le vittime. I deportati venivano da più di 30 paesi europei, per il 90% erano ebrei, ma anche polacchi, rom, sinti, russi, testimoni di Geova, oppositori politici e altri ancora».

Il complesso di questo enorme lager consisteva di tre aree comunicanti: Auschwitz I era il lager originario, composto da 30 baracche; Auschwitz II – Birkenau, che venne allestito in un secondo momento per ottimizzare lo sterminio, contava oltre 300 baracche, 4 grandi crematori e le camere a gas; Auschwitz III – Bonowitz ospitava la fabbrica dove erano costretti a lavorare un certo numero di deportati (tra i quali Primo Levi). Il campo di Auschwitz con le sue unità occupava uno spazio molto isolato di ben 40 km quadrati in territorio polacco.

Poco prima della liberazione del campo a opera dell’esercito sovietico nel gennaio del 1945, gran parte della documentazione venne distrutta dai nazisti, tanto che quanto è conservato oggi corrisponde soltanto al 5%: tale scarsità di dati rende estremamente difficile risalire alle identità delle vittime. Lo storico, nel suo lavoro di ricerca, si deve confrontare con dati isolati e sparsi, come per esempio un nome scritto su una valigia o inciso su una parete, o con registri che contengono solo liste di numeri. «Cercare e ricostruire: questo è uno dei motivi per cui io sono ad Auschwitz», racconta Antoczyk. «I sopravvissuti sono molto importanti, mi hanno dato la motivazione a lavorare in un posto del genere. È naturale pensare che questo sia un luogo spaventoso, pieno di tragedia. Ma nella mia prospettiva, nella mia percezione, qui può realizzarsi una sorta di metamorfosi: da luogo del male e della tragedia a centro dove può svilupparsi del bene, a luogo che si impegna nel voler costruire un mondo nuovo, grazie a persone come Peter Selg e altri collaboratori. Auschwitz colpisce nel profondo tutti noi. Qui ha avuto luogo uno degli avvenimenti più spaventosi e terribili per l’umanità, ma adesso noi possiamo trasformare questo orrore, è l’unica cosa che possiamo fare: ricordare, onorare e lavorare per un futuro migliore».

La parola passa quindi a Peter Selg, il quale ricorda con affetto la sua prima visita all’amico nel sito di Auschwitz: era il 1995, un dicembre freddo e nevoso. Antonczyk era allora un giovane dottorando in storia, all’inizio della propria carriera scientifica, carriera che per caso (o per destino?) lo portò proprio in quel luogo. Per svolgere le sue ricerche egli abitava sul posto, precisamente in quella che era stata una palazzina delle SS all’interno del campo di sterminio. Selg si chiedeva come facesse Antonczyk a reggere interiormente un’esperienza del genere; dal momento che non era mai stato ad Auschwitz, decise di far visita all’amico, trascorrendo lì alcuni giorni e alcune notti, in assenza di turisti e visitatori.

Ai tempi in cui frequentava il ginnasio in Germania – continua Selg – negli anni ’80, a lezione non si parlava mai dei campi di concentramento, e così la sua prima visita ad Auschwitz fu accompagnata da forti sensi di colpa (benché egli fosse nato appena nel ’63). Da allora tornò regolarmente a far visita all’amico per seguirne l’evoluzione interiore – e sviluppò così un legame sempre più profondo con quel luogo, fino a convincersi che ogni persona dovesse avere coscienza di un posto del genere. Nacque così l’idea di invitare in visita ad Auschwitz i suoi studenti di medicina, per offrir loro la possibilità di risvegliare in se stessi una coscienza storica. «Era chiaro che ci fosse un motivo per andare lì, per essere lì e far esperienza di quel luogo, commemorare i defunti e vedere, essere lì con occhi e orecchie aperti: è il più grande cimitero del mondo, un luogo assolutamente fuori dal comune».

In seguito, gli divenne chiaro che il mestiere del medico aveva rivestito un ruolo centrale nella selezione e nell’assassinio dei deportati. Per realizzare la società biopolitica auspicata da Hitler e dai suoi seguaci, erano indispensabili medici che svolgessero un lavoro di selezione delle persone in base a razza ed ereditarietà – nonché la sistematica eliminazione delle vite considerate inferiori.

Risale al 1806 un appunto del dottor Hufeland (che fu medico di Goethe e di Schiller), il quale affermò che «un medico può essere l’uomo più pericoloso in uno Stato»: osservazione profetica per il XX secolo, per la biopolitica come terribile paradigma nella storia dell’umanità – che diventa reale nel momento in cui i medici pensano di poter stabilire quali vite meritino di esistere e quali no.

Secondo Selg, gli studenti devono essere consapevoli del ruolo che il mestiere di medico ha avuto nella storia. Dal processo di Norimberga svoltosi dopo gli orrori della seconda guerra mondiale emerse che i medici reclutati dalle SS non furono tutti menti criminali e sadiche: molti di essi avevano servito lo Stato in qualità di persone dotate di una formazione in medicina, «nei loro anni di studio universitario essi avevano imparato a vedere l’essere umano come un oggetto. Questo presupposto materialistico della medicina – che si tratti cioè di un corpo fisico il quale, a seconda delle sue caratteristiche genetiche e razziali, è degno di vivere o meno – era quello che avevano studiato, era parte della formazione che avevano ricevuto, era il loro ruolo. Si potrebbe dire: era una distorsione professionale nella formazione in medicina. Nel periodo nazista i medici non disponevano di una vera immagine dell’essere umano». Tuttavia, una visione di questo genere in campo medico operava già da tempo. La medicina aveva già perso il suo fondamento etico, era diventata scienza pratica naturale, una scienza ai fini della quale anima e spirito sono del tutto irrilevanti. Il sistema nazista, basato sul male e sull’esercizio del potere, si combinò perfettamente con questa medicina che aveva perso l’immagine dell’uomo. Ogni studente (di medicina e non solo) deve dunque sapere che la medicina non è uno spazio libero, ma che in essa operano sempre delle forze: forze politiche allora, forze economiche oggi, fino a forze di controllo biopolitico – uno dei più pericolosi, come aveva già segnalato nell’immediato dopoguerra Alexander Mitscherlich [presente al processo di Norimberga, autore di Medizin ohne Menschlichkeit (Medicina senza umanità)] quando prevedeva che la biopolitica potrebbe essere una delle sfide più difficili per il futuro.

Gli aspiranti medici devono essere desti e consapevoli di avere un’opportunità meravigliosa. Non basta, tuttavia, soltanto la coscienza del fatto che l’essere umano non si limita a essere un oggetto fisico e psicologico, ma serve (in ogni studio) anche un vero e proprio percorso di formazione della sfera che sta tra l’io e il tu, come sostiene Martin Buber. Formare la coscienza dell’altro, oltre che la propria, è uno degli intenti dell’attività di docente di Peter Selg all’università Alanus.

Gli studenti devono inoltre sapere che nel contesto della prigionia nei lager ci furono anche movimenti di resistenza alle forze di distruzione; protagonisti ne furono soprattutto medici ebrei (mai medici delle SS) e levatrici polacche. Non bisogna omettere di ricordare che, pur in situazioni di atrocità inimmaginabile, spesso i detenuti si sostenevano vicendevolmente e facevano tutto quel che era loro possibile per salvare delle vite, come attestano svariate testimonianze.

Selg racconta poi l’effetto della visita ad Auschwitz sugli studenti. Nonostante il fortissimo sconvolgimento che deriva dal confrontarsi con l’abisso, e il naturale malessere che ne consegue, quell’esperienza fortifica sempre la loro volontà di curare, desta in loro il desiderio di aiutare, di operare con energia per il bene, e sollecita forze che si rivelano superiori al disagio e al senso di depressione dovuto all’incontro con l’orrore.

«[Auschwitz] era un luogo di morte e di sterminio, di lavori forzati, di camere a gas, ed era anche un luogo in cui le identità degli esseri umani venivano annullate. In un certo senso, l’intenzione dei nazisti consisteva proprio nel cancellare l’identità degli esseri umani, nel renderli parte di una massa fisica indistinta, e di eliminarli.

Scultura di Joseph Beuys - Berlin.de Hamburger Bahnhof - Museum für Gegenwart – Berlino

Scultura di Joseph Beuys – Hamburger Bahnhof – Museum für Gegenwart – Berlino

I detenuti venivano privati del proprio nome e al posto di quello ricevevano un numero, venivano derubati delle loro biografie, dei loro ricordi; ciò che sperimentiamo quando visitiamo quel luogo è vedere come Antonczky e i suoi collaboratori facciano tutto quello che è possibile per recuperare le biografie delle vittime. In molti casi non è più possibile farlo perché non rimangono tracce, ma laddove emergono indizi, anche solo minimi, vien fatto tutto quello che si può fare per ricostruire quelle biografie. Perché non si trattava soltanto, per esempio, genericamente di sinti o di rom: ognuna delle vittime aveva una propria vita, un proprio passato, un viso, una storia. Ciò che viviamo in quei seminari […] è che Antonczky e i suoi colleghi tentano di restituire l’identità a quelle persone». Tale sforzo è molto più che una commemorazione astratta, è la concreta ricerca di una singola storia. Lafrenz Page, l’ultima sopravvissuta del movimento di resistenza giovanile della Rosa Bianca, in un convegno americano dedicato alla medicina dopo il nazismo disse che «dopo l’Olocausto, c’è qualcosa di meraviglioso che possiamo fare: dare agli uomini un nome e un luogo».

La visita ad Auschwitz è uno shock che innesta un processo profondo; nel corso di quei seminari, osservare il modo di lavorare di Antonczky – continua Selg – motiva gli studenti a praticare la medicina mantenendo davanti ai propri occhi l’immagine dell’essere umano, un’immagine irripetibile e preziosissima, e questo segreto dell’uomo si svela loro proprio nel luogo più spaventoso e distruttivo che egli abbia mai visto. Attorno allo storico si è raccolto un team di collaboratori che non si occupano soltanto di fatti e dati, ma che hanno intessuto una relazione speciale con quel luogo e con le individualità che lì hanno sofferto. Questi ricercatori lavorano con vera etica proprio nel luogo in cui quasi tutti i principi etici sono stati distrutti; è chiaro che senza Antonczky seminari di questo tipo non sarebbero possibili.

A questo punto la parola torna allo storico: «Tutto questo per me è stato una sorta di percorso evolutivo negli anni. Quando ho iniziato a lavorare ad Auschwitz non ero del tutto cosciente della mia idea, non sapevo come mi sarebbe stato possibile lavorare lì. Con il tempo ho scoperto che quel luogo adesso è coinvolto in una metamorfosi: abbiamo avuto una rete di campi di concentramento creati dai nazisti, una rete dell’odio, dell’orrore e della tragedia, di uomini ossessionati dall’ideologia nazista; e adesso abbiamo una rete di organizzazioni e istituzioni composte da persone che vogliono realizzare qualcosa di buono, che vogliono cambiare il mondo costruendo sulla base di questa tragedia.

La storia del campo di sterminio di Auschwitz, il più spaventoso della seconda guerra mondiale, potrebbe venir trasformata per il futuro, per noi tutti. Non si tratta solo del passato e della storia – per noi è sempre vivo il processo di dis-umanizzazione e ri-umanizzazione».

Antonczky menziona poi una serie di personalità che sono state fondamentali per la sua esperienza personale e per la realizzazione di questo processo di trasformazione. Tra queste ricorda il prof. Hubert Schneider, che per primo organizzò sul posto un seminario di studi tra ricercatori polacchi e tedeschi; la lunga e fruttuosa collaborazione con Peter Selg a partire dagli anni ’90; il prof. Waclaw Dlugoborski, che seguì il lavoro di dottorato di Antonczky e che collaborava con il centro commemorativo in qualità di ex detenuto.

Fu proprio Dlugoborski, internato per 4 anni nel campo (vi venne deportato all’età di 17 anni), a far vedere allo storico quel luogo sotto un’altra luce, cioè come un luogo del presente, come un potenziale di metamorfosi della tragedia storica in vista di un futuro diverso.

In passato, numerosi sopravvissuti hanno raccontato ai giovani le loro spaventose esperienze nel campo di Auschwitz: siamo a conoscenza di molte biografie, tanti testimoni oculari hanno contribuito a preservare la memoria. Ora però gli ultimi sopravvissuti scompaiono a poco a poco e spetta alle nuove generazioni conoscere le loro storie e, soprattutto, realizzare la trasformazione di un passato tanto doloroso.

Oggi esistono reti di contatti, famiglie e amicizie che si sono formati proprio su quella tragedia e sui lavori di ricerca intrapresi negli anni, racconta lo storico: «Noi crediamo che tutte quelle persone, morte assassinate, fossero piene di amore e di speranza, e sentissero la mancanza delle loro famiglie e dei loro cari. Adesso abbiamo entrambi questi aspetti ad Auschwitz: l’orrore e la bellezza. Degenerazione e valori umani, disperazione e speranza, odio e amore, egoismo e solidarietà: tutto questo era lì, ma io credo fortemente che le vittime non fossero piene di odio, ma piene di amore e di speranza».

Antonczky menziona poi la sua lunga amicizia con un nativo americano canadese, Lloyd Haarala, che in Auschwitz individuò un simbolo anche per il proprio popolo, ed eseguì sul luogo un rito di purificazione secondo la tradizione della sua cultura di origine. Auschwitz è ora un simbolo per tutta l’umanità, per tutte le tragedie che sono accadute e che accadono. Viene poi ricordato il lavoro del fotografo Simon Watson, che in tavole di grandi dimensioni ha immortalato gli spazi interni del lager e i cambiamenti da essi subiti nel tempo: le sue opere sono vere finestre sul passato e sul ricordo, catturano vuoti ancora pieni di presenza e aprono la vista su mondi interiori.

Le relazioni più toccanti sono sempre quelle con gli ex prigionieri, che in alcuni casi Antonczky è riuscito a individuare dopo lunghe e difficili ricerche (per esempio, sulla base di un nome e di un numero incisi su un mattone), per poi incontrarli di persona e ascoltare i loro racconti – spesso sorpreso dalla vivacità di questi anziani superstiti. Ammirevoli sono l’energia e la gioia con cui Halina Birenbaum, ex deportata e autrice di Die Hoffnung stirbt zulezt (La speranza è l’ultima a morire), continua a incontrare i giovani e a documentare la memoria storica.

«Così ho riconosciuto» continua Antonczky «che il fenomeno Auschwitz, il dato di fatto storico che ha avuto luogo nella storia dell’umanità, si può descrivere paragonandolo a un albero. Le sue radici sono l’odio per il diverso e l’antisemitismo: queste radici portano al tronco, alla catastrofe di Auschwitz, e ora possiamo paragonare tutto quello che è accaduto dopo la liberazione con la chioma dell’albero, con tutti i suoi rami, e ognuno di noi può essere un ramo di questo albero.

Luogo della Memoria e Museo Auschwitz-Birkenau

Luogo della Memoria e Museo Auschwitz-Birkenau

Abbiamo la chance di trasformare questa tragedia in un futuro migliore, e penso sia importante per tutti gli uomini ora, per la nostra generazione ma anche per quelle future. La convinzione di Theodor Adorno, che scrivere poesie dopo Auschwitz sia barbarie, è un punto di vista che non condivido del tutto, io credo che Auschwitz sia stato una tragedia per tutta l’umanità, per gli ebrei, per la civiltà occidentale nel suo complesso, ma ora sono convinto che proprio su questo suolo possiamo fare qualcosa di buono. Altrimenti, il mio lavoro e la mia vita qui non avrebbero senso, e questo è ciò che mi dà la forza, insieme alle esperienze che faccio, per esempio, con gli studenti di medicina o con altre persone da tutto il mondo, che sono di altri paesi, altre culture e altre religioni. Tutto questo mi dà la forte convinzione che Auschwitz sia ora veramente un luogo di speranza e di amore, non di odio, non di sola tragedia».

La collaborazione con Peter Selg, per esempio, dura da molto tempo e per lo storico rappresenta una sorta di simbiosi, una forma di sostegno reciproco.

Riprende quindi la parola il medico, che sulla base della propria esperienza personale dei seminari sul luogo conferma la solidità delle numerose amicizie e collaborazioni internazionali di Antonczky. L’aspetto che più lo colpisce è il fatto che Auschwitz risvegli in così tante e diverse persone la volontà di apportare forze di guarigione, il desiderio di sanare il tanto male che lì si è consumato: «In quel luogo il male è stato distruttivo a un livello tale, che deve esser compensato su piani molteplici da parte di coloro i quali vi giungono oggi, sia quelli che commemorano genitori, nonni, o una qualche persona cara, sia anche quelli che non hanno alcuna relazione con quel luogo e tuttavia vi giungono – come l’amico nativo canadese che lì sentì il bisogno di svolgere un rituale».

Realmente è sorta una fitta rete di contatti, continua Selg «e prima delle chiusure a causa della pandemia sono giunte in visita ad Auschwitz più di un milione di persone all’anno. Ciò significa che da un lato abbiamo il grande numero di deportati che lì trovarono la morte, dall’altro abbiamo il grande numero di persone che sempre e ancora continuano a venire. Certo, molti sono turisti e vi trascorrono due ore, altri però si trattengono più a lungo e se si trascorre lì, ma veramente, anche solo mezz’ora è significativa (non è una questione di tempo o di durata), si vede gente che prega, gente di ogni religione. […] Io ho sempre avuto la sensazione che [tanto male] non fosse compensabile, che indipendentemente da quante forze positive giungessero, non avrebbero mai potuto compensare quello che lì accadde; eppure, il fatto che tutte queste persone vengano, con le loro diverse religioni e concezioni dell’essere umano, fa la differenza. Poi il centro commemorativo è stato chiuso al pubblico a causa della pandemia».

Antonczky racconta delle difficoltà per il centro commemorativo durante l’anno scorso, a causa delle chiusure. Al momento non sono possibili visite per gruppi, quindi gli ingressi si limitano a visitatori singoli dalla Polonia. «Da quando il museo è stato allestito», spiega, «la cosa più importante è che si tratta del luogo originale. Abbiamo sempre tentato di evitare ogni forma di virtualizzazione ma adesso, a causa della pandemia, siamo costretti a rendere possibili visite virtuali. Abbiamo così sviluppato programmi speciali, per esempio su Birkenau nel 1944, che potranno essere visti da ogni parte del mondo, ma vogliamo ribadire che è fondamentale visitare questo luogo di persona.

Abbiamo luoghi come Yad Vashem [l’istituto per la memoria della Shoah a Gerusalemme] per esempio, o come l’Holocaust Memorial Museum a Washington, abbiamo oggetti autentici che sono appartenuti ai deportati, ma tutto questo non è il luogo originale. La forza del luogo originale è qui, quando ci si trova sul posto ad Auschwitz-Birkenau, quando si sta davanti alla camera a gas. Questa esperienza non può venir sostituita da una realtà virtuale».

Questo sarebbe un museo, ma invece è prima di tutto un luogo di commemorazione, è una tomba di massa e le persone lo sanno – e hanno il diritto di venire qui, non solo come visitatori ma esplicitamente per commemorare».

Peter Selg riprende la parola e osserva che Antonczky ha avuto modo di conoscere molti dei sempre più rari superstiti e ha saputo avvicinarsi a loro profondamente. Una fortuna per gli studenti di medicina in visita – ricorda – che hanno avuto l’occasione di ascoltare direttamente le loro testimonianze. Come nel caso dell’incontro organizzato con il vecchio Prof. Dlugobowski: ancora attivo e loquace nonostante l’età, era un simbolo vivente della forza di superamento mentre passava accanto alla camera a gas, in quel luogo dove era riuscito a resistere per 4 anni.

«E così – aggiunge Selg – la trasformazione di questo luogo storico continua, con tutti i defunti, con i sopravvissuti, che sono un piccolo gruppo ma hanno un grande effetto, continua grazie all’allestimento di questo museo, inteso però come un luogo di formazione. Primo Levi, Hermann Langbein o tutti gli altri avevano questa immagine: di un luogo di formazione.

È difficile da dire, perché Auschwitz è un luogo di morte, un luogo del male, ma abbiamo ottenuto un’impressione di come oggi lì siano ancora operanti forze umane, e per questo loro operare siamo sempre profondamente riconoscenti. Speriamo che il centro commemorativo venga presto riaperto ai visitatori».

Condividendo la stessa speranza, Antonczky aggiunge: «Vorrei invitarvi a venire nel nostro centro commemorativo, perché sono convinto che ognuno di noi dovrebbe giungere almeno una volta in un luogo del genere, in quanto a ogni fase della vita scopriamo qualcosa di nuovo. Insieme a Peter Selg e agli studenti è stato possibile guardare la storia di questo luogo con uno sguardo diverso da quello che può avere, per esempio, un padre o un marito. Posso poi immaginarmi che se si viene in visita quando si è anziani si scopra qualcosa di diverso ancora, è una sorta di pellegrinaggio.

Normalmente potrebbe sembrare strano invitare qualcuno in un posto di questo tipo, eppure io veramente credo sia una cosa che ha senso per tutti noi, perché potrebbe rendere possibile un’altra prospettiva – come per questi studenti, che hanno trovato la forza di agire e di essere medici nel nostro tempo presente. Penso che non sia solo storia, è sempre e ancora tempo presente per noi, e potrebbe darci forza.

Potremmo immaginare: è come quando qualcuno subisce un incidente, e dopo ne esce più forte. Proprio così può accadere in questo caso, nel senso di un’umanità che cresce su amore umano, su speranza e solidarietà».

«In passato», conclude Selg, «le identità nazionali avevano i loro luoghi commemorativi per le vittorie, luoghi che ricordavano identità nazionali nate combattendo contro altre identità. Oggi, come umanità traumatizzata, abbiamo bisogno di una nuova identità. Tu hai parlato di incidenti ma potrebbero essere organi di una metamorfosi, di un ribaltamento, e noi siamo così riconoscenti per il fatto che lì persone come te lavorino a una tale trasformazione, perché senza l’essere umano non ci sarebbe alcuna trasformazione, nemmeno ad Auschwitz-Birkenau. Non accade nulla senza l’essere umano, tutto accade nei cuori».

Banksy - C'è sempre speranza

Banksy – C’è sempre speranza