Close

IL RITRATTO DI DANTE – A 700 anni dalla sua morte

Dante - Sandro Botticelli 1495 Ginevra, collezione privata

Immagine 1: Dante – Sandro Botticelli 1495 Ginevra, collezione privata

 

Quando pensiamo a Dante, vediamo subito il suo inconfondibile profilo: il naso aquilino, la bocca segnata dallo sdegno e la profondità dello sguardo, il capo ornato con la corona d’alloro, simbolo della sua fama letteraria, e il mantello rosso sulle sue vecchie spalle. Come un sigillo definitivo, la personalità del poeta determina i tratti del suo volto. A partire dal XIV secolo Dante venne raffigurato con queste tipiche caratteristiche in innumerevoli ritratti, tra i quali spiccano quelli a opera di Sandro Botticelli e Raffaello. (Vedi rispettivamente: immagine 1 sopra e immagine 2 qui sotto).

Dante - Raffaello Sanzio 1509 - Roma, Musei Vaticani - Dettaglio della "Disputa del Sacramento“ - Stanza della Segnatura

Immagine 2: Raffaello Sanzio 1509 – Roma, Musei Vaticani – Dettaglio della “Disputa del Sacramento“ – Stanza della Segnatura

Ma qual è il più antico e fedele ritratto di Dante giunto fino a noi? Quello che Giotto dipinse alla fine della sua lunga e fortunata carriera (presumibilmente attorno agli anni 1335-1337) nel meraviglioso affresco della Cappella del Palazzo del Podestà a Firenze – un capolavoro che è stato restaurato recentemente con l’intento di celebrare l’importante ricorrenza dei 700 anni dalla morte di Dante. (Vedi la terza immagine).

Dante - Giotto, presumibilmente 1335-1337 - Firenze, Museo del Bargello - Dettaglio del "Giudizio Universale“ - Cappella del Palazzo del Podestà

Immagine 3: Giotto, presumibilmente 1335-1337 – Firenze, Museo del Bargello – Dettaglio del “Giudizio Universale“ – Cappella del Palazzo del Podestà

Il dipinto di Giotto ci consegna una raffigurazione unica e non convenzionale del più grande poeta del Medioevo. Il viso di Dante appare qui giovane e sereno; il suo fine profilo non è segnato da sdegno e amarezza, come sarà invece caratteristico nei ritratti successivi. Il suo sguardo si apre al futuro, nel rosso della sua veste risplendono nobiltà d’animo e brillantezza di genio. Sulla sua luminosa fronte manca la tipica corona di alloro, ma egli stringe al cuore il suo libro, il capolavoro che lo ha reso immortale. Il Dante ritratto da Giotto non ha bisogno di attributi esteriori che ne mostrino la grandezza: immortalato nella gloria, il poeta è collocato in Paradiso, dove nella schiera dei beati contempla il Divino. Questo è un ritratto più spirituale che terreno, e rappresenta il vero, puro Dante, sgravato dal peso della tradizione.

Se Dante e Giotto si fossero conosciuti di persona non è noto. Quel che è certo è che furono contemporanei, furono entrambi artisti molto rinomati nelle principali città italiane del loro tempo, tanto che all’uno era noto il talento dell’altro, come attesta in modo inequivocabile la reciproca stima che si tributarono. Giotto dipinse un ritratto celebrativo del poeta nel suo ultimo grande affresco; nei suoi versi, Dante celebrò Giotto come il miglior pittore, come colui che con la propria arte aveva superato il maestro Cimabue, e subito di seguito collocò se stesso al primo posto nel campo della poesia, quale massimo rappresentante del dolce stil novo, cioè di quell’originale stile che aveva le sue fonti nella letteratura provenzale francese [1].

Questa parità di talenti tra i due grandi spiriti non sfuggì ad Albert Steffen, che rappresentò in modo molto vivido un immaginario Incontro tra Dante e Giotto, raccontando con finezza la profondità della loro amicizia [2]. Nei suoi saggi Albert Steffen si dedicò più volte e con intenso interesse alla figura e alla poesia di Dante: anche grazie a questi approfonditi contributi abbiamo a disposizione un’immagine della vita di Dante e della sua opera, un’immagine che è al contempo un invito a dialogare in modo costruttivo con il patrimonio di pensiero contenuto nella Divina Commedia.

Rudolf Steiner affermò che al destino di Dante era affidata una missione politica decisiva: il grande fiorentino avrebbe infatti dovuto esercitare un influsso storico di portata tale che ancora oggi, dopo 700 anni, se ne avvertirebbero i risultati. Dante però non poté portare a termine la sua missione. Cacciato dalla sua città, Firenze, perse la possibilità di intervenire attivamente a livello politico e morì in esilio il 14 settembre del 1321. A questo prezzo, tuttavia, poté consegnare il suo capolavoro alla posterità: se quella durissima condanna non si fosse abbattuta sul suo destino, conclude Steiner, Dante non avrebbe mai ultimato la Divina Commedia [3].

Albert Steffen completò in modo originale questa affermazione di Steiner, riconoscendo invece nel genio artistico il tratto decisamente preponderante nel destino e nell’individualità di Dante: «Nel profondo, il suo più grande amore era diretto più ai grandi santi del Medioevo che a quelle personalità emergenti che preannunciavano il Rinascimento. E se anche fosse ritornato in patria in veste di amministratore del potere politico, una volta raggiunta la conoscenza di sé e la catarsi, avrebbe continuato a dedicarsi al suo capolavoro» [4].

Potremmo infine chiederci se il peso della tradizione, che grava sul ritratto di Dante affermato nell’immaginario collettivo, gravi allo stesso modo – se non di più – anche sulla sua opera maggiore. Al giorno d’oggi, chi si occupa della Divina Commedia si confronta al contempo con 700 anni di commentatori e di interpretazioni. Dante fu davvero così aderente ai dogmi della Chiesa cattolica, come potrebbe sembrare a una prima lettura, oppure sotto il manto della bellezza dei suoi versi il poeta celò un messaggio più profondo, la voce di un’altra spiritualità?

Che Dante fosse stato permeato dell’impulso cristiano è fuor di dubbio; tuttavia, egli visse all’inizio del XIV secolo, in tempi estremamente complessi, nei quali papi corrotti, eretici, santi e molteplici ordini contribuivano a conformare nel modo più vario la vita religiosa. A suon di dogmi e d’armi, la Chiesa fortificava il proprio potere sulla terra; molto è andato definitivamente perduto, come la straordinaria ed elevata cultura dei Catari, o lo splendore dell’ordine dei Templari. Il capolavoro di Dante però si è salvato, è rimasto quale pietra miliare per una futura evoluzione – come Albert Steffen seppe cogliere profondamente: «Per lo spirito di un così grande configuratore della parola dovrebbe significare il massimo beneficio se oggi la sua opera fosse continuata, cosa che dovrebbe però avvenire mediante l’immaginazione, l’ispirazione e l’intuizione conquistate dall’anima cosciente (e non dalle forze animiche medievali di allora): ciò sarebbe quindi possibile solo attraverso una facoltà spirituale che era inesistente prima di oggi, una facoltà diretta tanto alla sua opera, quanto alla sua individualità» [5].

Alessandra Coretti

Firenze, Cattedrale di Santa Maria del Fiore (Duomo): “La Divina Commedia illumina Firenze”, conosciuto anche come “La Divina Commedia di Dante Alighieri”. Affresco di Domenico di Michelino (1465), su disegno di Alessio Baldovinetti

La Divina Commedia illumina Firenze, affresco di Domenico di Michelino (1465), Cattedrale di Santa Maria del Fiore, Firenze

[1] Dante, Purgatorio XI 94-99

[2] Albert Steffen, Dante und die Gegenwart, Dornach 1965 (Dante e il Tempo presente), pag. 136. Pag. 142: E Dante disse a Giotto: «Tu stesso sei ora la mia poesia.» E Giotto a Dante: «E tu la mia pittura»

[3] Rudolf Steiner, conferenza del 23.10.1915 a Dornach

[4] Albert Steffen, Dante und die Gegenwart, pag. 101

[5] Albert Steffen, Dante und die Gegenwart, pag. 105