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TUTTO CORRE – Una riflessione di Byung-Chul Han

Il tempo corre

Tratto da Kapitalismus und Todestrieb (Capitalismo e pulsione di morte) – 2019

Nato a Seul nel 1959 Byung-Chul Han vi studiò i metalli e la loro lavorazione, finché negli anni ’80 lasciò la Corea del Sud per stabilirsi in Germania, dove ha studiato appassionatamente filosofia e letteratura tedesca nonché teologia cristiana, e oggi figura tra i più apprezzati filosofi in lingua tedesca. In un’intervista condotta dal Philosophie Magazin gli venne chiesto: «Perché un metallurgo diventa filosofo?» «Nella vita ci sono fratture e cambiamenti che non si possono spiegare» rispose Chul Han; «Forse questa mia scelta anticonvenzionale in fin dei conti ha a che fare con il mio nome. Una volta Adorno ha affermato che i nomi sono delle iniziali, che noi non comprendiamo ma alle quali obbediamo. Il simbolo cinese per “Chul”, sulla base della sua pronuncia, significa sia “ferro” che “luce”. In coreano la filosofia si chiama “scienza della luce”. Per quanto ho potuto, ho dunque soltanto seguito il mio nome…»

Questa settimana vogliamo condividere in traduzione un breve scritto di Byung–Chul Han presente nella raccolta di saggi e dialoghi Kapitalismus und Todestrieb (Capitalismo e pulsione di morte) del 2019. Si tratta di una concisa e sempre attuale riflessione sul tempo, oggi divenuto oggetto di accelerazione, mercificato e subordinato alla logica della produttività. Naturalmente il filosofo che punta il dito sul tempo del lavoro – inteso come tempo ormai deviato da processi quantitativi economici – non accusa il lavoro tout court, che è uno spazio sacro da riscoprire, dedicato all’esercizio e alla fioritura dei talenti individuali, della creatività posta a servizio dell’Altro. Infatti l’autore si domanda: qual è il tempo che riesce ancora a sottrarsi alla velocizzazione dei processi caratteristici di un mondo in cui tutto corre? Esiste un tempo ancora nostro?

Buona lettura!
Alessandra Coretti

 

Tutto corre

«Per mancanza di quiete la nostra civiltà si precipita in una nuova barbarie. In nessun altro tempo gli attivi, vale a dire gli irrequieti, hanno avuto maggior peso. Per cui una delle necessarie correzioni che si devono apportare al carattere dell’umanità è quella di rafforzare in larga misura l’elemento contemplativo».
(Friedrich Nietzsche, Umano troppo umano)

Non tutte le espressioni del tempo si lasciano accelerare. Sarebbe sacrilego voler accelerare un atto rituale. Rituali e cerimonie hanno un loro tempo proprio, un ritmo e una cadenza loro. Anche tutti gli atti che sono legati alle stagioni si sottraggono all’accelerazione. Carezze, preghiere o processioni non si lasciano accelerare. Tutti i processi di natura narrativa, dei quali fanno parte anche riti e cerimonie, hanno un loro proprio tempo. A differenza del contare, il raccontare non ammette alcuna accelerazione. L’accelerazione distrugge la struttura temporale narrativa, il ritmo e la cadenza di un racconto.

La velocità di un processore si può aumentare a piacimento, perché non lavora in modo narrativo, bensì in modo puramente computazionale. Il processore si distingue così dalla processione, che è invece un evento narrativo. Oggi tutti i riti e le cerimonie vengono aboliti, in quanto rappresentano un ostacolo all’accelerazione dei flussi dell’informazione, della comunicazione e del capitale. Vengono così eliminate tutte le forme del tempo che non obbediscono alla logica dell’efficienza.

Il nome all’attuale crisi del tempo è accelerazione. Tutto diventa più veloce. Dappertutto vengono offerte e magnificate pratiche di rallentamento. La vera crisi del tempo, però, è che abbiamo perso quei tempi che non ammettono alcuna velocizzazione, forme di tempo che rendono possibile un’esperienza della durata. Oggi il tempo del lavoro è così totalizzante da diventare il tempo stesso: è questo il tempo che si lascia accelerare e sfruttare. Qui le pratiche di rallentamento non creano nessun tempo altro – si limitano a rallentare il tempo lavorativo, anziché trasformarlo in un tempo di tutt’altra natura.

L’esperienza della durata oggi non è quasi più possibile. Non la consente il tempo del lavoro, che non è un tempo narrativo, bensì un tempo computazionale, che vuol solo accrescersi. La mancanza della durata ci trasmette la sensazione che oggi tutto si velocizzi, ma la causa del suo venir meno non è l’accelerazione, come erroneamente si suppone. Come una slavina, il tempo continua a precipitare ancor più rovinosamente proprio perché non ha in sé più alcun appiglio, perché non c’è nulla che gli conferisca durata. Quei momenti del presente, tra i quali non sussiste più alcuna forza di attrazione temporale né alcuna tensione, poiché sono puramente additivi, provocano lo stravolgimento del tempo che conduce all’accelerazione senza direzione, cioè senza senso.

È il senso che crea durata. Il vuoto di senso comporta anche il fatto che noi oggi comunichiamo senza sosta e senza direzione. Il vuoto tra una comunicazione e l’altra appare come una morte, la quale è da nascondere il più presto possibile mediante ancor più comunicazione. Questa però è un’impresa vana: l’accelerazione della comunicazione da sola non può eliminare la morte.

La società attuale meritocratica [Leistungsgesellschaft, basata sulla prestazione, sui risultati e sull’efficienza, NdT], prende in ostaggio il tempo stesso incatenandolo al lavoro. La pressione da prestazione determina allora una spinta all’accelerazione. Il lavoro in quanto tale non è necessariamente distruttivo: come direbbe Heidegger, può infatti condurre a una «pesante ma sana stanchezza». Lo stress da rendimento però, anche quando nella realtà dei fatti non si lavora molto, può provocare una pressione psichica che può incenerirti l’anima. Il burnout non è una malattia causata dal lavoro in sé, ma dalla prestazione. A far ammalare l’anima non è il lavoro in quanto tale, bensì la prestazione, questo nuovo principio neoliberista.

La pausa intesa come pausa dal lavoro non rappresenta un tempo di qualità diversa, è solo una fase dell’orario lavorativo. Oggi non abbiamo alcun altro tempo se non quello del lavoro. Già da molto abbiamo perso il tempo della Festa. Lo stacco dal lavoro, alla fine della giornata lavorativa, come vigilia del dì di festa oggi per noi è una cosa del tutto estranea. Il tempo festivo non serve a rilassarsi o a ristabilirsi dal lavoro, ma dà inizio a un tempo di tutt’altra natura. Come la cerimonia [die Feier, che in tedesco ha la stessa radice di ferie. NdT], la Festa rientra originariamente nel contesto religioso. La parola latina feriae ha un’origine sacra e indica il tempo destinato agli atti di tipo religioso. Fatum [così nel testo tedesco, ma può solo essere un refuso: per la parola Fanum. NdT] è il luogo santo consacrato alla divinità, cioè la sede cultuale destinata ai riti religiosi.

La Festa inizia là dove termina il lavoro, inteso come atto «pro-fano» (letteralmente: ciò che si trova davanti alla zona consacrata del tempio). Il tempo festivo è diametralmente opposto a quello lavorativo. La fine della giornata lavorativa come vigilia della festività annuncia un tempo sacro. Se si rimuove quel confine o quella soglia che separa il sacro dal profano, ciò che resta non è che il banale e il quotidiano, cioè il mero tempo lavorativo. Il tempo del lavoro è un tempo profanizzato, senza gioco né festa. E l’imperativo della prestazione e dell’efficienza lo sfrutta.

Oggi portiamo con noi il tempo lavorativo non soltanto in vacanza, bensì anche nel sonno, ecco perché dormiamo così agitati. Anche la fase di riposo non è che una modalità del lavoro, in quanto serve a rigenerare le forze destinate al lavoro. Visto in questo modo, il riposo non è altro dal lavoro, bensì è un’epifania di esso. Anche il rallentamento o la lentezza, da soli, non possono creare un tempo diverso: sono infatti una conseguenza del tempo lavorativo accelerato. Contrariamente a ciò che sostiene un’opinione largamente diffusa, vivere slow non fa superare l’attuale crisi del tempo. Rallentare non porta alla guarigione, è semmai un sintomo, e la malattia non è curabile per mezzo del sintomo. Il rallentamento, da solo, non fa del lavoro una Festa.

Oggi rallentare non serve, è invece indispensabile una rivoluzione del tempo, che inauguri un tempo del tutto diverso. Quello che si lascia accelerare è un tempo egoico, è il tempo che prendo per me. Ce n’è però anche un altro, cioè il tempo del mio prossimo, quindi un tempo che io dono a lui. Il tempo dell’Altro, inteso come dono, non si lascia accelerare e si sottrae anche alla prestazione e all’efficienza. La politica del tempo applicata dal neoliberismo oggi ha completamente cancellato il tempo dell’Altro, cioè il dono. Serve appunto una diversa politica del tempo. In contrapposizione al tempo dell’ego, che ci isola e ci separa l’uno dall’altro, il tempo dell’Altro crea comunità, sì, è tempo che unisce. Questo è il tempo buono.

Momo - Michael Ende