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QUESTO IMMENSO NON SAPERE

Questo immenso non sapere (Einaudi) di Chandra Candiani

QUESTO IMMENSO NON SAPERE

Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano

di Chandra Candiani (Ed. Einaudi, 2021)

Recensione di una lettrice

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Da vecchia libraia, sono ancora a consigliarvi: piaceranno anche a voi, sicuro sicuro queste pagine lievi e gentili. Alle quali lascio presto la parola, in una specie di florilegio.

Lei scrive poesie, durante i mesi scorsi di clausura invernale ha composto queste righe in prosa, dove si aggirano gatti, crescono grandi faggi, umani meditano in silenzio e ovunque fiorisce il cuore – con le sue mappe e i suoi climi, le cicatrici tutt’uno con le ampiezze che lasciano intravedere e vi si squadernano sconfinate.

Meditando, cioè vuotando la mente dalle scorie di pensieri da cui siamo pensati, ci accorgiamo della delicatissima dimensione del cuore. È un luogo tenero, vulnerabile, eppure contiene annotazioni a margine della nostra vita, da sempre.

Il cuore ha una sua memoria, vacillante, insicura, perché integrale: non trattiene solo le parole, i gesti, ma anche l’angolazione della luce, i colori, i rumori di fondo. Il cuore resta graffiato e tatuato, si fa secco e si fa umido, fertile e arido. È molto silenzioso, assorbe l’intera esperienza del momento. Come i neonati e come gli animali.

Pensieri del cuore

Meditando, il cuore si fa molto vivo ed è importante che accanto a lui cresca un bravo decifratore e traduttore, per ascoltarlo e poi decidere cosa mettere in parole, come possa diventare pensiero e cosa portare a un’azione.

Il cuore ha bisogno di un tempo ritmico, di procedere a fasi, assomiglia ai cerchi degli anni che segnano un albero. Il cuore è un po’ come un albero, si segna in silenzio.

Imparare la lingua del cuore rende saldi e unici, attraversando una grande trasparenza e una nudità che tanto ci spaventa, mentre è la nostra vera natura.

È importante sapere da dove partiamo, riconoscere l’aridità del terreno o la focosità del cavallo, senza falsità né virtuosismi. Fare l’opposto di quello che sentiamo davvero: fare i buoni, i virtuosi, è creare una persona artificiale che prima o poi mostrerà i denti o distribuirà bocconcini di veleno avvolti in carta argentata. Coltivare il cuore significa prima di tutto essere consapevoli di cosa sentiamo, essere onesti fino ad arrossire, a noi stessi possiamo dirlo. Ogni malvagità o meschinità accolta nella consapevolezza del cuore si trasforma in qualcosa di diverso. Scopriamo che dietro ci sono una paura, un tremore antichi e negati, oppure che c’è pronto un silenzioso clown che ci indica quanto siano anche umoristiche la nostra cattiveria, gelosia, invidia, tetraggine, falsità. Mai forzare però, chi forza crea quella stucchevole sensazione di accoglienza di tutto che è solo dimostrativa e in realtà nasconde una avidità di sottomettere tutti quanti alle proprie maestrie di prestigiatore del sorriso e dei bei gesti.

Partire da dove si è e augurarsi il bene è opera di bonifica.

Non sarà un librino da portare in spiaggia, piuttosto da centellinare nelle nottate in cui il frigo suona vuoto. Profuma di bergamotto e dei ricordi, di una infanzia divina e difficile nei quali ritrovarsi. Con tutti gli animali le piante e gli angeli di Dio che salgono e scendono.

Una buona pratica, preliminare a qualunque altra, è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi. Guardarsi attorno e lasciare andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con uno sguardo che ignora il risaputo e vede ora.

prato

Si può andare a trovare un piccolissimo pezzo di prato, un pizzico di prato c’è sempre, anche in città. E guardare. A lungo. Si apre un universo minimo. Infinite vicende, mutamenti, arrivi, partenze, forme sempre più piccole man mano che lo sguardo si limita a vedere. Esercitare la meraviglia cura il cuore malato che ha potuto esercitare solo la paura.

È il cuore a parlare, fa poesia il cuore, che le gracule ascoltano religiosamente, sotto sguardi compassionevoli di gatti e di monaci, e carezze date con le foglie da castagni secolari.

E forse tutto questo c’entra con il fatto che alberi e animali mi hanno protetto l’infanzia, anche se non da un punto di vista scientifico né religioso.

Solo, mi hanno dato un’altra possibilità, un prezzo diverso al tempo, non solo di perdita, quasi una tradizione immutabile, una continuità dove si vive all’insaputa di sé.

Una persona molto ferita dagli altri esseri umani ha bisogno di altri regni. Per questo accosto alberi e animali… perché possono ospitare i sogni dei bambini rotti e dargli provvisorio asilo. E non solo i sogni, possono anche risvegliare una lingua innata che resterebbe assopita se la comunicazione con gli umani funzionasse meglio.

Entrare in un bosco, come entrare nella stanza di un bambino che dorme, o in un tempio, allena a una premura nel passo, nei gesti, nei pensieri, che è consapevolezza rivestita di grazia, attenzione che include l’altro, fascio di luce diffusa, non raggio concentrato.

La natura ci vede e si accorge di noi, anche mentre camminiamo sole lungo i sentieri dei caprioli, durante i lockdown da sfollate in campagna.
Vi auguro buona lettura, gettando ancora l’amo qua e là tra le pagine.

Una lettrice

Non so quanto rimarrò qui, non so se tornerò, non so dov’è casa, non so quando potrò riprendere gli incontri di meditazione: la cosa più probabile è no. Una porta sbattuta sul muso del cane festaiolo. Il cane del cuore non capisce quando è tempo di lutto. Ci vuole un po’. Perdonalo.

Spesso il cuore è triste, come una coppa piena di lacrime che galleggia sulle onde, non è una tristezza personale, e l’impersonalità è generosa e trema insieme a tutto il resto.

Non voglio tornare a prima. Non ho nessuna normalità a cui fare ritorno.

In un tempo dove il tragico è manifesto sembra irriverente parlare di gioia, eppure è proprio questo che fa la gioia, si infila dove è inaspettata, crea bagliori impensabili per chi vuole restare murato nel buio come per una legge di fedeltà alle conseguenze di chi è più offeso dalla vita e dai suoi colpi.

gioia gialla a San Giovanni

La gioia spunta improvvisa dal corpo, dallo sguardo che innocentemente ammira uno spiraglio luminoso nel buio, da una parola “sbagliata” che invece è molto più appropriata di quella corretta, da una nuvola.

E se la riconoscenza alleggerisce il peso della fortuna, la condivisione dà peso alla leggerezza della gioia. Si dice che si può dedicare al Buddha anche il volo di un uccello.

Così, in tempi che falciano, non è vergogna sentire frammenti di gioia e dedicarli a chi soffre, anche a noi certamente, ma è difficile, anche se non impossibile, che un postino scriva a se stesso.[…]

Fa bene portare attenzione alla gioia, che si nasconde discretamente quasi in ogni momento, e fa bene spedirla a qualcuno che non lo sa ma ne ha bisogno.