Close

Il contributo dell’antroposofia alla cultura del XX° e XXI° secolo. Prima parte

Arild-Rosenkrantz, Arimane e Lucifero

Conferenza di Peter Selg tenuta al Goetheanum di Dornach il 24 gennaio 2022 e disponibile integralmente in video. Trascrizione e traduzione di Alessandra Coretti


 

Il periodo compreso tra il XV° e il XIX° secolo ha condotto a un rapidissimo sviluppo della scienza del mondo fisico materiale, culminando in forme di pensiero irrigidite, che hanno generato per esempio una medicina ispirata alla meccanica e a logiche di darwinismo sociale. Nel XX° secolo ne vediamo le conseguenze, ma è anche sorta una stagione nuova, di multiforme e fruttuosa indagine sull’essere umano. In questa ricerca, la scienza dello spirito di Rudolf Steiner rappresenta uno sforzo straordinario. Se la vita interiore di una civiltà si manifesta nella cultura, cioè nell’essenza di un’attività spirituale che si riflette in campo terreno, qual è il posto dell’antroposofia nella cultura del XX° e del XXI° secolo, quale il suo effettivo contributo?

Buona lettura!

Alessandra Coretti

 

«Noi siamo in alto grado coltivati attraverso arte e scienza.

Siamo civilizzati fino alla noia in ogni tipo di urbanità e di decoro sociale. Ci manca, però, ancora molto per poterci considerare moralizzati. Perché l’idea della moralità appartiene ancora alla cultura, ma l’uso di questa idea che porta soltanto al simulacro del buon costume nell’amore per l’onore e nel decoro esteriore è un semplice civilizzare».

 

Stefan Krauch, Neuer Horizont

 

Con questa citazione di Immanuel Kant, Peter Selg apre la conferenza inserita nel ciclo Antroposofia – un ampliamento della scienza?, interrogandosi sul significato e sull’essenza di quella che comunemente definiamo cultura. Kant distingueva in modo netto la cultura e ciò che si esprime esteriormente come civiltà; nel XX° secolo Oswald Spengler affermava che quando le culture muoiono (sì, la cultura è peritura essendo cosa viva), le civiltà tendono a permanere. Una cultura nella sua fase terminale sfocia in una civiltà, … che è il suo aspetto cadaverico. Anche Wilhelm Humboldt e un più moderno filosofo del secolo scorso, Helmuth Plessner, definivano “cultura” l’ambito interiore di una civiltà, e lo collegavano direttamente al problema di dare forma [Bildungsfrage] a ciò che l’essere umano porta in sé, così sosteneva Kant, come idea di moralità. La cultura è dunque l’essenza [Inbegriff] di un’attività spirituale che dà frutti in campo terreno.

Peter Selg afferma: «Se ci si interroga sul contributo dell’antroposofia alla cultura del XX° e del XXI° secolo probabilmente molte persone, che hanno un’alta considerazione dell’antroposofia e che perseguono l’idea della moralità, ammetteranno che ci sono state sorprendenti conquiste nell’ambito della pedagogia, della pedagogia curativa, della medicina. Riproponendo però la domanda nel senso in cui la intendeva Kant, si dovrebbe porre il quesito fondamentale: cioè se queste sono di fatto forme di espressione di un’attività spirituale intimamente culturale. Questa conferenza si occuperà del contributo dell’antroposofia alla cultura, chiedendosi se esso non sia stato e non sia tuttora un contributo soprattutto scientifico. La scienza dello spirito antroposofica di cui parlava Rudolf Steiner si considerava di certo tale, e si è poi concretizzata in diversi ambiti di vita, come espressione di un atteggiamento scientifico fondamentale “altro”, dagli orizzonti più ampi. L’antroposofia ha portato all’ampliamento del concetto di scienza – a un nuovo atteggiamento scientifico – e, dunque, a un ampliamento dell’immagine dell’uomo».

L’immagine dell’uomo dominante oggi è il risultato di un’evoluzione che ha circoscritto molto il focus dell’attività scientifica. Per lungo tempo la “scienza” si è identificata con i concetti e i metodi della scienza naturale; il corpo umano è stato definito un “oggetto scientifico”; la scienza di stampo naturalistico, nel varcare traguardi enormi nel campo dell’indagine del mondo materiale, ha limitato fortemente le vie della conoscenza in senso lato.

«Oggi, e già da molto tempo, sappiamo che l’essere umano non è soltanto corporeità fisica materiale, ma è corpo vivente, animato, compenetrato dallo spirito. Nella medicina questo è molto chiaro. E quando ci si interroga sul contributo scientifico dell’antroposofia alla cultura, io credo che si dovrebbe iniziare dalla totalità dell’immagine dell’uomo, dalla complessità dell’immagine dell’uomo che, accanto alla conoscenza materiale e biochimica di ciò che si svolge nel corpo fisico, tenta di cogliere al contempo anche la dimensione vivente di tutti i processi, e lo fa in modo metodico. È una scienza del vivente, che necessita di un metodo specifico. In questo senso Rudolf Steiner ha sempre dato molto peso al contributo di Goethe, che egli chiamava «il Copernico e il Galilei del mondo organico» – dunque non del mondo fisico, ma del mondo vivente. E per questo sviluppo di un metodo grazie al quale il vivente conoscendo, si avvicina in modo scientifico al vivente, Rudolf Steiner ha individuato nell’apporto di Goethe un contributo centrale nel campo della scienza naturale. A questo si aggiunge poi qualcosa che Wolfgang Müller, nel suo libro da poco pubblicato con il titolo La sfida dell’antroposofia (Zumutung Anthroposophie, Info3 Verlag), ha chiamato “una riabilitazione del mondo vitale sensibile”. Il fatto, cioè, che questa sensorialità, ovvero ciò che è visibile ai sensi – e si può ben riscontrarlo in Goethe – è al contempo una dimensione piena di spirito. Per Goethe una pianta non era solo un oggetto fisico-chimico, era anche un organismo vivente dotato di spirito; egli non vedeva un “aldilà” inafferrabile contrapposto a un mondo materiale, vedeva invece tra questi due piani una compenetrazione».

Bisogna poi menzionare il fatto che l’essere umano dispone anche di un proprio mondo animico, una dimensione che Goethe ha esplorato poco e solo letterariamente; si tratta di una dimensione che non appartiene alla scienza naturale, e che rientra invece in una fenomenologia della vita spirituale, cioè in un accesso scientifico al mondo dell’anima.

«A tutto questo non era interessato quasi più nessuno durante l’evoluzione tra il XV° e il XIX° secolo, perché allora il focus era sul mondo fisico-materiale. Al XX° secolo appartiene la dimensione generale della nuova ricerca scientifica anche nel campo dell’indagine sull’uomo e quindi – il punto di partenza centrale per Rudolf Steiner – sull’attività spirituale dell’uomo: se si vuole comprendere a fondo l’uomo, che è un essere pensante, è necessario un metodo di accesso adeguato. La questione non è affatto semplice perché questi soggetti di ricerca ampliati richiedono un altro avvicinamento metodico, si potrebbe anzi dire che richiedono un’altra coscienza. Infatti la coscienza capace di afferrare il mondo materiale e oggettivo è altra dalla coscienza necessaria per cogliere il vivente, l’animico e lo spirituale».

Ci si può allora porre una domanda ambiziosa: sapendo che di fondo anche lo spirituale ha bisogno di una forma di coscienza e di conoscenza scientifica ad esso adeguate, noi oggi non siamo forse di fronte all’esigenza di compiere un balzo nella coscienza culturale e nell’evoluzione scientifica?, un balzo che per portata è simile al cambiamento epocale avvenuto all’inizio del XV° secolo, quando venne sviluppata in modo grandioso una coscienza per il mondo materiale (e fu quasi una rivoluzione, un’offensiva senza pari)?

«Questo è estremamente pretenzioso e difficile. In un’occasione Rudolf Steiner definì l’antroposofia “un’indagine della realtà” che lavora con una coscienza trasformata. Perché coscienza trasformata? Semplicemente perché con la coscienza ordinaria non si giunge a tale risultato, e lo si vede già in Goethe: se voglio praticare un’altra ricerca e un’altra conoscenza della natura, in un certo senso devo prima formarmi gli organi per farlo. Gli organi, però, sono l’uomo stesso, l’uomo che vede e percepisce, che è presente in modo sensibile ora, cioè l’uomo che rende se stesso un “organon”, uno strumento di conoscenza.

 

La Rosacroce

In questo senso, il cosiddetto percorso di formazione offerto dall’antroposofia è un sentiero tanto più angusto quanto più strettamente è legato alla sua urgenza scientifica, secondo la quale gli uomini devono (ma diciamo, con più cautela, possono) sviluppare facoltà che permettano di accedere a più vasti ambiti di esperienza – e non per un desiderio soggettivo o per una speranza nei mondi sovrasensibili, bensì sulla base di una, vorrei dire, necessità ed esigenza scientifica. Se devo sapere di più (e in molti ambiti della vita dobbiamo sapere di più per non lasciarci sfuggire la realtà), allora devo trasformare me stesso. Ciò significa: devo accrescere, devo modificare la coscienza ordinaria.

Può sembrare strano, ma già per una coscienza come quella di Galilei era necessario un passo avanti, e dal punto di vista della storia culturale si può seguire come un tale pioniere della ricerca, nel campo della scienza naturale, con il suo nuovo tipo di coscienza avesse causato una rottura nell’esperienza del reale. In un certo senso, la sfida dell’antroposofia è anche insistere sul fatto che una nuova cultura ha anche bisogno di un nuovo concetto di scienza, e quindi di una varietà e di un accrescersi delle prestazioni coscienti dell’uomo.

Wolfgang Müller scrive: «Su questo punto Rudolf Steiner è davvero radicale, proprio come lo era da maestro spirituale. Non un superficiale anti-materialismo, dunque, non una spiritualità a buon mercato, bensì un’intenzionalità assolutamente ponderata”. E l’aspetto avvincente dell’antroposofia, così come l’intendiamo, è il fatto che essa non si astrae dalla modernità, ma che di fondo riposa nella logica dell’evoluzione della scienza e della coscienza: l’ampliamento degli oggetti di indagine può riuscire solo qualora l’uomo si sia formato proprio con la scienza naturale, e abbia acquisito da essa il metodo – per poi applicare tale metodo, adeguatamente trasformato, agli ambiti dell’anima e dello spirito.

Il contributo centrale dell’antroposofia alla cultura io lo vedo in questa ampliata comprensione scientifica, in questa applicazione delle scienze. E l’antroposofia conduce in primo luogo a un ampliamento di ciò che noi conosciamo, sperimentiamo e apprezziamo come uomo, essa conduce a una comprensione altra della dignità umana, e anche delle minacce cui essa è esposta. È da qui che sorgono realtà di vita; solo allora si può parlare di pedagogia, di agricoltura, di pedagogia curativa e di medicina. Ma in un certo senso questi sono campi d’azione di ciò che scaturisce, in modo nuovo, da una stessa origine».

 

Che tutto questo non sia un lusso ma una realtà dirompente lo si evince al meglio dalla medicina, e anche dal fatto che oggi viviamo in una realtà fortemente medicalizzata. Da quando, nel XIX° secolo, la medicina si è impadronita del metodo delle scienze naturali ha compiuto passi enormi. «Il progresso è stato ininterrotto, sicuro, e sorprendentemente grande. E così continuerà fintanto che resteremo fedeli alla bandiera della scienza naturale», osservava Bernhard Naunyn, Professore Emerito di Strasburgo, caratterizzando l’atteggiamento fondamentale che accompagnò l’inizio del XX° secolo. Incoraggiati dai grandissimi risultati della fisica e della chimica nella prima metà del XIX° secolo, i pionieri della medicina percepirono sempre più distintamente la necessità di trasformare l’antiquata e tradizionale arte medica in scienza naturale applicata.

Negli anni ’30 e ’40 dell’Ottocento essi dovevano ancora fronteggiare la resistenza da parte delle corporazioni dei medici; tuttavia, tali pionieri (studiosi come per esempio Raymond, Brücke, Virchow) continuarono a difendere energicamente l’idea che nell’organismo agiscono soltanto forze fisiche e chimiche, e di questa idea fecero un vero e proprio manifesto. La medicina venne così associata alla meccanica, la vita venne definita come espressione di una somma di fenomeni fisici e chimici. A quel tempo c’era più programma teorico che dimostrazione concreta, e la dimensione del trascendente veniva considerata niente più che uno smarrimento dello spirito umano.

 

Rudolf Virchow, sottomucosa intestinale di un bambino

 

Vigeva la convinzione che il metodo della scienza naturale basato sulla fisica e sulla chimica fosse l’unico applicabile, nella medicina e non solo. Il XIX° secolo era animato da utopie, dalla visione che con questi modelli di successo in breve tempo sarebbero scomparse le malattie perché l’uomo avrebbe scoperto e dominato tutti i meccanismi della natura. Di più: il corso della vita fisica sarebbe stato guidato dalla volontà della ragione umana, sarebbe stato ottimizzato. Nella convinzione di questa generazione di scienziati, l’uomo avrebbe dunque formato e determinato tutto ciò che si svolge nella corporeità: «non siamo solo iatrotecnici, che riparano in modo efficiente, causale e analitico, bensì facciamo in modo che la corporeità si sviluppi nel modo che stabiliamo noi». Questo era un concetto fulminante, rappresentato con entusiasmo da giovani studiosi tedeschi che miravano a raggiungere un grande scopo. Nel XIX° secolo la Germania era a guida dei grandi processi accademici sia nel campo della fisiologia che della chimica, come nell’industria farmaceutica, nella ricerca farmacologica e anche nella gestione delle cliniche (nelle quali molte persone volonterose si mettevano a disposizione per la ricerca medica). Allora, uno studente di medicina trascorreva molto più tempo in laboratorio – ma anche nelle stalle, dove imparava la farmacologia sperimentale – che al letto dei pazienti malati. Il metodo mutuato dalla scienza naturale rappresentava il Vangelo di questa fede nel progresso, e chi non lo riconosceva non veniva considerato un medico.

«Era questo il XIX° secolo, un tempo che Martin Heidegger definì come “la più oscura di tutte le epoche” – benché sia stato il XX° secolo a subirne le conseguenze. Ma in un certo modo qualcosa era stato pensato fino in fondo, ed era stato voluto; si può chiamarlo materialismo, ma si deve sapere che consiste già in una grande trasformazione del mondo vivente. Questo intento divenne davvero pericoloso a livello sociale quando si collegò al darwinismo sociale, una dottrina del XX° secolo secondo la quale la sopravvivenza delle società umane dipende dal fatto che i soggetti migliori si separino da quelli più deboli. Per i darwinisti sociali la medicina era un problema. Quanto più essa era efficiente, tanto più era pericolosa, in quanto praticava una “contro-selezione”. Mediante l’applicazione medica, infatti, vengono supportati malati gravi, anziani, disabili, soggetti che di fatto verrebbero eliminati per un processo di selezione naturale. Nel suo Origine dell’uomo già all’inizio della seconda metà del XIX° secolo Darwin scrisse: “Noi costruiamo ricoveri per idioti, per storpi e malati; emaniamo leggi per i poveri e i nostri medici fanno del loro meglio per conservare la vita dei malati il più a lungo possibile. Questo, tuttavia, non è affatto razionale”».

L’orientamento di pensiero che si era imposto alla fine del XIX° secolo non offriva spazi di dialogo in ambito scientifico. Era un contesto in cui la realtà dell’antroposofia non poteva venir accolta nel mondo di quella scienza che più tardi il fisico e filosofo Thomas Kuhn definirà “normale” – una scienza basata su norme e paradigmi stabili che allontana da sé in modo sistematico ogni scienza “sovra-straordinaria”, in grado di mettere in discussione i suoi fondamenti teorici.

Conclude Peter Selg «In un certo modo, alla fine del XIX° secolo, dopo molti tentativi di farsi avanti e combattere in campo accademico per un ampliamento del concetto di scienza – cosa molto difficile – Rudolf Steiner fece ciò che una volta aveva affermato Ernst Mach, ovvero: “Se in un certo ambito non è possibile farsi comprendere, allora non resta altro che fondare una scuola e riunire degli allievi, piuttosto che proseguire all’infinito una lotta sterile”».

Fine della prima parte

Goetheanum