Close

«Come un’enorme fiaccola si ergeva il Goetheanum…» – Il racconto della notte del 31 dicembre 1922

Cari amici,

il 2022 volge rapidamente al termine, carico di sfide, di speranze – e di importanti anniversari.
Esattamente 100 anni fa il movimento antroposofico, chiamato in vita da Rudolf Steiner e da una generazione di fedelissimi collaboratori, dovette sopportare il colpo più duro: nella notte di San Silvestro del 1922 un incendio doloso divorò in poche ore lo splendido edificio in legno del primo Goetheanum. Anni di intensissimo lavoro, di sacrifici e di straordinaria fioritura artistica culminarono in una colonna di fumo; il 1° gennaio del 1923, del cuore della colonia internazionale che si era insediata a Dornach dieci anni prima, non restava che cenere.
Dalla furia delle fiamme si salvò soltanto il gruppo ligneo scolpito da Rudolf Steiner, allora collocato nella falegnameria poco distante – l’immagine del Cristo rappresentante dell’umanità in equilibrio tra le forze oppositrici, il capolavoro incompiuto.
Per ripercorrere i fatti di quella tragica notte, questa settimana condividiamo in traduzione la testimonianza di un’importante protagonista di quegli anni, Assia Turgenieff (Mosca 1890 – Arlesheim 1966). Ella si stabilì a Dornach nel 1914, e partecipò attivamente all’edificazione della “casa della parola” durante il periodo della Prima Guerra mondiale. Fu una delle prime euritmiste, e artista di grande livello: realizzò le incisioni sulle vetrate colorate del primo Goetheanum, che andarono distrutte nella notte dell’incendio. Assia Turgenieff fu anche autrice delle preziose e toccanti memorie raccolte nel volume Erinnerungen an Rudolf Steiner und die Arbeit am ersten Goetheanum, (qui di seguito pp. 101-107) <Ricordi di Rudolf Steiner e del lavoro al primo Goetheanum>.
Desideriamo onorare il ricordo del drammatico evento, e ci auguriamo che meditando sulle parole che Rudolf Steiner pronunciò durante il Convegno di Natale del 1923, trascritte in fondo a questa pagina, ognuno possa trovare ispirazione dalla realtà tuttora spiritualmente operante del primo Goetheanum.

Buone Feste, buon Anno Nuovo e buona lettura!

Vostra Alessandra Coretti

 

La notte di San Silvestro del 1922, Assia Turgenieff

Particolarmente bui restano, nel ricordo, gli ultimi mesi dell’inverno del 1922. Le nubi minacciose che incombevano sulla vita collettiva dal deflagrare del grande conflitto mondiale non si erano ancora diradate. Potevamo percepirlo ogni volta, durante le nostre tournée di euritmia attraverso quasi tutti i Paesi d’Europa: dappertutto ‘incontravamo’ diffidenza, ansia nei confronti del futuro e fuga nello stordimento di fronte alle domande cui non si trovavano risposte. I valori di un tempo erano tramontati, e ancora non se ne avevano di nuovi. Lì dove il Dott. Steiner si sforzava di arginare ulteriori catastrofi, la resistenza contro il suo operare diventava sempre più grande, fino a farsi aperta minaccia.
Un riflesso di questa sfasatura generale agiva anche nella nostra vita comunitaria. Le nuove sezioni di lavoro, nate sul suolo della nostra Società, sottraevano forze alla centrale del movimento antroposofico. Il fallimento era lampante soprattutto nei tentativi di intervenire nella vita economica: di conseguenza aumentarono le preoccupazioni in merito ai fondi per un futuro sostentamento del Goetheanum. Aumentò anche l’ostilità nei confronti del nostro movimento, e il Dott. Steiner insisteva nel richiamare la nostra attenzione sui suoi effetti. Eravamo tutti spaventati, quando egli ci lesse un passaggio tratto da uno dei molti scritti ostili:

«Di scintille spirituali, che, simili a fulmini, sfrigolano verso la lignea trappola per topi, ce ne sono già a sufficienza; e da parte di Steiner servirà un bel po’ di intelligenza per agire in modo conciliante, di modo che non arrivi il giorno in cui una scintilla vera regali una fine ingloriosa alla magnificenza di Dornach».

Nel nostro ottuso sentimento d’impotenza, non comprendemmo ciò che si celava dietro a quelle parole, ci mancava la capacità di resistenza e di difesa di fronte alla sciagura che avanzava verso di noi – un fallimento, questo, proprio come durante i primi giorni della guerra, quando il Dott. Steiner tentava di renderci desti di fronte agli avvenimenti; anche questa volta, egli non poteva dire più di quanto già facesse, ma le conferenze di Natale tenute nel Goetheanum portarono invece luce e speranza in quel periodo cupo.
Era un pomeriggio fosco e umido, quando mi affrettavo verso il Goetheanum per uno spettacolo di euritmia. Simili alle chimere di Notre-Dame, due figure scure si sporgevano dalla balaustra della terrazza, accanto alla piccola impalcatura che era stata montata sopra l’ingresso sud. «A quest’ora non dovrebbe esserci più nessuno sulla terrazza» fu il pensiero che mi attraversò rapido la mente, ma dovevo andare di fretta. Il guardaroba che avevamo appena allestito, uno spazio allungato, si trovava infatti al primo piano, accanto alla stanza di ricreazione del Sig. e della Sig.ra Steiner. A lato c’era poi la cameretta di Mieta Waller.

Per il Prologo in cielo dal Faust I c’erano circa 30 interpreti coinvolti, intenti a cambiarsi d’abito – un vociare caotico in ogni dove. «Ragazzi!» esclamò forte, all’improvviso, un’euritmista, «sta arrivando un temporale, una tempesta!» – e corse alla finestra, per vedere il maltempo che si avvicinava. «Ma non è possibile, questo in inverno non succede» risuonò da tutte le parti, e in effetti il cielo era di un grigio uniforme, senza l’ombra di nuvole. «Ma io l’ho sentito, era un mugghio, come quando c’è una forte tempesta!» L’euritmista rimase convinta della propria affermazione. Qualcos’altro era poi accaduto mentre da dietro il palcoscenico si scendeva verso il guardaroba: all’improvviso una di noi si affrettò verso la porta della terrazza e tentò di aprirla. «Ci sono delle persone chiuse fuori in terrazza, hanno scosso la porta», assicurò. Infatti, la porta era chiusa a chiave, ma nessuno aveva prestato attenzione all’accaduto.
Quando giungemmo al piano di sotto, Mieta Waller spinse per farsi strada in avanti ed esclamò: «Frau Doktor [Marie Steiner], sta per accadere una sventura? Il mio specchio si è rotto. Non so perché sia caduto dalla parete.» Dunque, un altro avvertimento. Se solo il Dott. Steiner fosse venuto da noi alle prove, come faceva sempre… Egli avrebbe forse investigato la cosa: perché era caduto lo specchio? Che cos’era quell’improvviso mugghiare, e cosa facevano quelle persone in terrazza? E invece egli non venne, e più tardi venimmo a sapere che, durante il suo discorso prima della rappresentazione, la botola per la pedana dell’oratore, sulla quale egli stava in piedi, ad un tratto aveva iniziato ad abbassarsi. Chi è più forte? – chi era più forte? Noi, come angeli, come voce del Signore nel pentagramma, posizionati su una pedana rialzata – oppure, là sotto, il nero Mefisto, avvolto di luce rossastra? … Non potevo liberarmi di questo pensiero angoscioso. «Nuove tombe incontrano sempre un nuovo anno», parole di Solovieff che risuonavano nella rappresentazione di quella sera. Drammatica e toccante era la Marcia funebre di Mendelssohn, e a questo si aggiunse poi il Coro degli insetti dal Faust II, «Salve a te, salve a te, antico padrone!». Per realizzarlo dovevamo unire dei particolari balzi a degli scuotimenti del capo e a un’euritmia delle dita – era inquietante. In una poesia di Natale francese, profondissimo e serio era lo sguardo del piccolo bambin Gesù.
Nonostante la conferenza serale di Rudolf Steiner fosse poi stata molto coinvolgente, non riuscivo a superare quel freddo, quella sensazione sinistra. Nessuno si accorgeva che il Dottore doveva fare una gran fatica per continuare la sua conferenza? Era come se gli venissero sottratti i pensieri. Dove era egli in quei momenti, quando improvvisamente gli venne a mancare la voce?
Io fui una delle ultime persone a uscire dalla sala. Di sotto si erano raccolti un paio di piccoli gruppi di persone, che mi sembravano preoccupate. «Qualcuno deve aver bruciato dei rami di abete», sentii dire. Volevo approfondire la cosa, ma venni trattenuta da una partecipante al coro degli insetti che mi balzò incontro al grido di «Buon anno!».

Appena rientrata a casa – abitavo nella prima casa per gli euritmisti e le finestre guardavano al Goetheanum – feci per tirare le tende. Ma che cosa stava accadendo? Qualcosa di simile a una pallida striscia di nebbia fluttuava sopra l’edificio; vedevo ombre di persone guizzare da una parte all’altra dietro i vetri illuminati del vano scala a sud. Lo sapevo: era accaduto qualcosa di terribile, e mi precipitai fuori dalla mia stanza. Nell’atrio mi imbattei in Edith Maryon, che era come paralizzata dall’agitazione, e faticava a liberare l’estintore dalla sicura. Con una presa decisa lo afferrai io, e con esso corsi verso l’edificio.

Primo Goetheanum

Davanti all’ingresso giaceva a terra in stato di semi incoscienza il nostro giovane falegname, Schleutermann, stordito dal fumo. Alcuni lo stavano soccorrendo. Dalla falegnameria fino all’edificio si era formata una catena di persone con secchi e brocche d’acqua. Volevo unirmi a loro, ma dov’era il fuoco? Al primo piano, la stanza di Marie Steiner era aperta e vuota, il pavimento fradicio e pieno di estintori svuotati inutilmente, sparsi lì a terra. Dov’era il fuoco? Lo si cercava al piano di sopra, nella Sala Bianca e tra le cupole, ma il fumo non permetteva di avvicinarsi. Andai allora nella Sala Grande, e la trovai solenne e silenziosa, completamente illuminata; la sala e il palcoscenico erano vuoti.
Sotto l’alberello davanti alla falegnameria stava il Dott. Steiner, e guardava i nostri affanni. Edith Maryon era vicina a lui. Perché non interviene? Perché non aiuta? Solo più tardi venni a sapere che egli, come prima cosa, insieme a due testimoni aveva controllato il quadro con le sicure elettriche, e aveva constatato che erano tutte intatte. Poi aveva chiamato i vigili del fuoco. I pompieri da Basilea arrivarono però solo molto più tardi, e il carico d’acqua era sufficiente soltanto per salvare la falegnameria. Nel frattempo, i nostri pompieri e la gente di paese si erano sforzati di contenere l’incendio; eppure, del fuoco non si vedeva ancora nulla, perché infuriava tra le pareti di legno! Soltanto il fumo diventava sempre più fitto.
Giunta di nuovo nel vano scala sud, incontrai Käthe Mitscher, che insieme ad alcuni collaboratori evacuava i mobili dalla stanzetta di Frau Doktor. Su indicazione di Rudolf Steiner, un giovanotto inferse un colpo d’accetta nella parete di legno: allora vidi le fiamme bluastre, che, come serpenti, si dibattevano verso l’alto con terrificante rapidità. Era ancora possibile salvare qualcosa? Non si sarebbe dovuto praticare quella breccia nella parete fin dall’inizio, già alle quattro e mezza del pomeriggio, quando i nostri euritmisti avevano sentito quel brusìo? Ormai le fiamme avevano infuriato per ore tra le pareti di legno. All’improvviso, con sospetto, dovetti ripensare all’apertura che alcuni giorni prima avevo visto presso la finestra della stanza del Dott. Steiner. Alcuni manovali avevano estratto lì un paio di pannelli dalla parete esterna – e quel punto si poteva raggiungere dalla terrazza… c’era un collegamento tra tutti questi fatti?
Restavano sempre ancora solenni e silenziosi gli spazi sotto le cupole, intonsi, refrattari dalla sventura. Mi sedetti nella sala. È pensabile che tra un paio d’ore di tutto questo non resterà più nulla? Guardare, soltanto – per l’ultima volta. Ma questo pensiero, così come la mia umana presenza, non avevano alcun diritto di restare, nel contesto di quel che stava avvenendo. Così mi ritirai impaurita.
Il medesimo silenzio aleggiava attorno al Dott. Steiner, sotto all’alberello davanti alla falegnameria. «Ci serve acqua, l’acqua non esce più!» gridavano alcuni dei maldestri aiutanti. A bassa voce egli comunicò quale numero di telefono bisognasse chiamare. «Scale, abbiamo bisogno di scale!» gridavano altri. «Sono poggiate alla parete dietro alla falegnameria», disse lui. «Dove posso aiutare, cosa devo fare?» gli chiedeva uno dei nostri giovanotti, affrettandosi verso di lui. Ma il Dottore taceva. «Aiutate laggiù a mettere in salvo i modelli», dissi io allora. «Io non ho bisogno dei modelli» disse il Dott. Steiner, richiudendosi poi di nuovo nel silenzio. «Allora andate!» dissi io al giovanotto dopo qualche momento.
Entrai nell’edificio ancora una volta. «Abbiamo dei tubi flessibili, ma non sappiamo dove allacciarli alla conduttura dell’acqua», mi disse un ragazzo del paese. Per fortuna lo sapevo. Ora la sala grande mi restituì un’immagine diversa. La luce non era più accesa. Rischiarati parzialmente da sinistre lingue di fuoco, che rendevano rosseggiante il fumo e divampavano ovunque tra le cupole, gli architravi affioravano da quell’inquietante luminosità. Si tentò di poggiare delle scale a pioli alle colonne, ma erano troppo basse. «Aiutami a salvare la tenda!» mi esortò un’euritmista, e così strappammo il sipario prima di trascinarlo all’esterno.
E di nuovo sentii l’impulso di andare da Rudolf Steiner. «Dottore, ora bruciano la sala e il palcoscenico!» gridò qualcuno da lontano. «Perché non si spegne il fuoco, perché non si usano le scale a pioli?» chiese egli rapido. «Le scale non bastano, sono troppo corte», dissi io. Ed egli si allontanò.
Anche le pareti esterne vennero divorate dal fuoco con incredibile velocità. Il Dottore intimò allora che tutti abbandonassero l’edificio. Il calore si faceva sempre più intenso. Preoccupata per gli stenogrammi delle conferenze, che erano depositati nella casetta di legno tra la falegnameria e il locale caldaia, la signora Finckh pregò Günther Schubert di portarli in casa Duldeck. Questi non riusciva a portarli da solo, così andai con lui. Non ci volle più di un quarto d’ora per sistemare tutti quei quaderni in una coperta che poi chiudemmo e trascinammo per le estremità; eppure, ripercorrere indietro la stessa via sarebbe stato impossibile. Come un’enorme fiaccola si ergeva il Goetheanum, divorato dalle fiamme in ogni parte. Il calore si spandeva come in un torrido giorno d’estate […]

Una fosca vampa rosseggiante fiammeggiava nell’oscurità notturna, le colline circostanti e le rovine di Dorneck rilucevano di un rosso incandescente. Gli spettatori, da Basilea e dai dintorni, si pigiavano a migliaia attorno al recinto che circondava il terreno su cui sorgeva l’edificio; l’intera area non era più accessibile. In silenzio, come colpiti da un incantesimo, essi guardavano la terrificante danza delle fiamme che torreggiavano alte nell’aria. Molti e consistenti gettiti d’acqua irrorarono le pareti della falegnameria, lì dove fino a poco prima si trovava il Dottore. In quella notte si carbonizzò una metà del piccolo alberello, che per anni resistette poi lì con i suoi rami nudi.
Il Dott. Steiner lo trovammo sulle scale di casa de Jaager, circondato da un gruppo di soci. La mezzanotte era trascorsa e nelle prime ore del nuovo anno il fuoco iniziò a placarsi. A poco a poco si diradò la massa di spettatori, e anche il Dottore si allontanò. Ora si iniziava già a riportare nella falegnameria tutto quello che era stato evacuato da lì. Anche la statua del Cristo era stata spostata dall’atelier sul prato retrostante. Adesso si poteva accedere di nuovo all’area. Un blu profondo circondava la collina, le fiamme dell’incendio avevano esaurito il loro lavoro. Solo il legno massiccio delle colonne, sovrastato dal doppio anello degli architravi, si stagliava incandescente nel cielo notturno – indimenticabile immagine, colma di brivido e bellezza. Era come un respiro, come un pulsante fremito di vita propria che compenetrava di luce quelle forme trasparenti e arroventate, era come un ultimo gesto di addio da parte della Terra, sulla quale l’edificio era stato fatto scendere per così breve tempo. In alto si dispiegava la volta del cielo, la patria alla quale faceva ritorno. Alle sue spalle, a ovest, una linea rosseggiante rispecchiava la luce del giorno che si annunciava a est.
E già il peso degli architravi incominciava a sfondare il doppio anello, e la massa incandescente rovinò ai piedi delle colonne. Stando vicino alla falegnameria, potevo vedere due ombre che risalivano lentamente la via al buio. Curvo e con passo pesante camminava il Dottor Steiner, seguito da Edith Maryon nella falegnameria. Egli era stato in casa Hansi da Marie Steiner, che a causa dei suoi piedi malati era stata costretta a vivere l’incendio da lontano, a guardarlo dalla finestra.

Il Dottore pretese espressamente che il lavoro, indisturbato dall’accaduto, venisse portato avanti; molto doveva esser ancora fatto per rendere la falegnameria adatta a quello scopo. Quando vi guardai dentro, un caos totale regnava nell’atelier di Rudolf Steiner. Egli stava lì, in mezzo ai mobili e alle cassette ribaltati. Si volse verso di me. Nel suo sguardo, che scrutava così tanto profondamente, non c’era traccia di rancore per il disastro subito, solo un dolore e un cordoglio immensi.
Il Dottore prese a recitare il saluto iniziale dell’angelo nella Rappresentazione dei tre Magi, riuscì ad articolarlo fino a «Signore buono e misericordioso…», poi gli si spezzò la voce. Tentò da capo ancora una volta, invano, e allora pianse in silenzio reggendosi sul suo bastone, finché trovò la forza di continuare a parlare. Quella sera, tutti si erano alzati spontaneamente in piedi quando il Dottore era entrato nella sala della falegnameria per la conferenza. Per anni quello spazio divenne il nostro luogo di lavoro.
[…]

Se l’assicurazione abbia poi risarcito un’ingente somma, lo si deve soltanto alla constatazione da parte del Dott. Steiner che nella notte dell’incendio tutti i quadri elettrici erano intatti. Tuttavia, egli ci faceva notare che il primo edificio era stato costruito con amore e forza di sacrificio; se fosse stato completato, avrebbe irraggiato pace. Nel secondo Goetheanum, invece, con i soldi dell’assicurazione vi sarà integrato anche l’odio degli uomini…
La risata giovanile e allegra, che prima così spesso aveva rischiarato i tratti seri del suo volto, le sue movenze rapide e leggere, la ritmicità della sua andatura – nessuno sapeva camminare come lui: tutto questo, dalla notte dell’incendio, non lo vedemmo mai più. Un pesantissimo fardello gravava sulle sue spalle. Egli doveva impiegare molta forza per mantenere la sua postura diritta, e il suo passo era accompagnato dalla fatica. Eppure, nell’ultimo periodo della sua vita, il suo operare e la sua forza spirituale aumentarono fino al sovraumano.

Assia Turgenieff, Erinnerungen an Rudolf Steiner und die Arbeit am ersten Goetheanum, pp.101-107

Attuale Goetheanum

Dal Convegno di Natale per la fondazione della società antroposofica universale, Editrice Antroposofica, pp.126-130

Un anno dopo la distruzione del primo Goetheanum, dal 24 dicembre 1923 al primo gennaio 1924, tra le pareti della falegnameria scampata all’incendio avvenne il Convegno di Natale, con la partecipazione di circa ottocento uomini e donne provenienti da ogni parte del mondo. Steiner anzitutto presentò giorno dopo giorno la Pietra di Fondazione e i suoi ritmi, i versetti meditativi che costituiscono il fondamento del tempio interiore che ogni essere umano può realizzare in proprio. In quei giorni vi furono conferenze, rappresentazioni euritmiche e la discussione – e votazione successiva, da parte di tutti i partecipanti – degli articoli dello Statuto della Società Antroposofica Universale che si stava fondando.

L’articolo 2 recita:
«Il nucleo originario di questa Società è costituito dalle persone che si riunirono a Dornach presso il Goetheanum nel periodo di Natale del 1923, tanto i singoli quanto i gruppi che si fecero rappresentare. Essi sono compenetrati dalla convinzione che esiste attualmente una reale scienza del mondo spirituale, e che alla civiltà odierna manca la cura di una tale scienza. La Società Antroposofica deve avere quale suo compito questa cura. Essa cercherà di adempiere tale compito mettendo al centro delle sue aspirazioni la scienza dello spirito antroposofica, coltivata nel Goetheanum di Dornach, con i suoi risultati per la fratellanza nella comunità umana, per la vita morale e religiosa come pure per la vita ar­tistica e per la vita spirituale in genere nell’essere umano».

Il signor van Leer (antroposofo, commerciante olandese, che si attivò per poter realizzare la base economica di Weleda, per esempio, dello stesso primo Goetheanum e poi del secondo) allora obiettò:

Joseph Emanuel van Leer: Qui è nominato il Goetheanum; però non abbiamo alcun Goetheanum.

Steiner: Noi non siamo dell’opinione che non abbia­mo alcun Goetheanum. Vede, mio caro Sig. van Leer, noi sia­mo dell’idea che non abbiamo alcun edificio, ma che ne avremo uno al più presto. Noi siamo dell’opinione che il Goetheanum è rimasto. Proprio per tale ragione, a dire il vero per un bisogno del cuore, l’anno scorso già all’indoma­ni dell’incendio, quando fuori ancora ardevano le fiamme, dovette essere proseguito il nostro lavoro, senza che avessimo dormito, come ha detto il Sig. Steffen, appunto per testimoniare proprio di fronte al mondo: noi siamo qui quale Goetheanum dell’anima, quale Goetheanum animico, che naturalmente deve avere al più presto possibile il suo edificio esteriore.

J. van Leer: Nel mondo esterno, oppure fra vent’anni, ci si dirà però: nell’anno 1923 non esisteva alcun Goethea­num a Dornach.

Steiner: Io ritengo che non si possa davvero parlare così. Si può dire: animicamente l’edifìcio è rimasto. Non è importante, mio caro Sig. van Leer, far proprio valere che qui, come in ogni altro luogo, noi mettiamo in primo piano quanto è spirituale? E che perciò lo sguardo fisico non ci im­pedisce di dire: «presso il Goetheanum»? Davanti al nostro sguardo spirituale il Goetheanum è qui!

J. van Leer: Sì, sì.