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Turandot, la figlia del Cielo

La Turandot, Umberto Brunelleschi, il costume, 1926

A cento anni dalla morte di Giacomo Puccini La Scala di Milano mette in scena la Turandot: un capolavoro di regia, scenografia, costumi, luci ed effetti video, che hanno saputo intessere artigianalità e tecnologia, valorizzandole entrambe.

Senza tempo come ogni fiaba, l’opera pucciniana tra le più famose al mondo viene rappresentata con successo da quasi un secolo. È ispirata a un’antichissima fiaba cinese, nata a sua volta da una vicenda realmente accaduta[i]. Si presta a essere letta a molteplici livelli di profondità, mantenendo tutt’oggi la freschezza viva della fonte inesauribile.

Il tema della prossima stagione al Centro – che sarà Osservando le polarità – ci invita a scandagliare la storia di Turandot da quella particolare prospettiva, che fa capo a una dualità macrocosmica e archetipica, quella tra:

  • la Luna: qui troviamo la protagonista, una giovane-vecchia incatenata ai vincoli di sangue, a insanabili rancori perpetuamente assetati di vendetta, a tradizioni millenarie, inconciliabili con un divenire che reclama cambiamenti epocali;
  • e il Sole: l’eroe solare, un giovane-futuro, ignoto, straniero in terra straniera e apparentemente senza nome, pronto però a sacrificare la sua stessa vita pur di raggiungere il Bene supremo.

L’essere senza patria e senza nome è una condizione tipica del cammino iniziatico, che ritroviamo anche nel Parsifal.

Altre polarità, connesse a quella di Luna e Sole, sono la luce riflessa e la luce irradiata – come a dire tenebra e luce –, il freddo e il caldo, l’acqua e il fuoco, lo yin e lo yang, profondità e altezze, femminile e maschile …orecchio e laringe, tradizione e innovazione, legami di sangue ed elettivi, genericità e individualità, ripetizione dell’uguale e nuovo che irrompe!, con i suoi abissi della libertà e dell’amore. …Non è che i primi siano peggio dei secondi: non c’è l’uno senza l’altro, e normalmente nelle vite degli esseri umani tutti questi aspetti già si presentano in alternanza dinamica, e poi sono anche equilibrabili tra loro. Nell’evoluzione in grande però, la saggezza lunare fa parte del passato (che tende a permanere anche oggi) e la solarità amorevole si annuncia come una caratteristica futura: e questa è la …transizione di Turandot, ma riguarda pure noi.

Anche lo sfaccettato assortimento di personaggi del dramma lirico può convivere nella complessità di ogni animo umano. Ripercorrendolo possiamo penetrare, trasportati e guidati dalla forza straordinaria di quest’opera, nei recessi più intimi della nostra anima.

Attenzione: seguono spoiler!

I atto:

L’intera storia si svolge in Cina, siamo a Pechino, in un tempo imprecisato, però antico.

In un sinistro scenario di morte, evocativo di un passato avvolto nell’immobilità del gelo, una principessa (l’anima umana) vive prigioniera della sete di vendetta, una crudeltà che però non la connota moralmente, essa infatti viene chiamata “la Pura”. Motivate da un dolore ancestrale, le sue azioni brutali replicano all’infinito e con spietatezza la legge paterna del taglione.

Qui si scopre che Turandot è afflitta da una “tara ereditaria” come si dice oggidì, ci vorrà una magia buona per vincere un retaggio della stirpe così pesante: una principessa sua antenata era stata stuprata e uccisa da un re straniero e ora la mannaia cade all’infinito a vendicare quel fatto.

Allora per Turandot femminilità significa vulnerabilità, di matrimonio non se ne parla!, per questo lei coi pretendenti usa la spada da guerriera, in modo marziale più che lunare. Non la usa personalmente, c’è un boia che lo fa, ma nella regia meneghina il boia è una donna… e compare già qui, alla prima scena, col suo lavoro affilato sull’ennesimo pretendente che non ha superato le prove fatidiche.

Si può notare l’assonanza tra il nome di Turandot e la parola Turani, che identifica la quarta sottorazza atlantica – fondamentalmente guerrieri, legati al pianeta Marte, oltre che all’antica Luna –, quella responsabile del gran misfatto, opera di magia nera, che portò alla distruzione dell’Atlantide[ii].

Si trattò di un riproporsi, come un’eco, del peccato originale, della caduta che l’umanità visse in epoca lemurica. E nel postatlantico, dove migrarono i Turani sopravvissuti? Proprio in Cina.

La cultura cinese primordiale, con la sua saggezza immane – che parla del Tao, dei cinque movimenti, dei processi eterici su cui si fonda la medicina cinese –, costituirebbe poi una sorta di redenzione di quelle conoscenze circa la forza vitale, che in Atlantide i contro-iniziati turanici avevano usato per i loro scopi di potere[iii].

In Cina permane però il culto degli antenati, che lega fortemente alle potenze spettrali del passato[iv] e volge ora al tramonto. Il sorgere della Luna è propizio per perpetrare il rituale macabro di morte, sorretto da una folla oscillante tra pietà e ferocia, ma è anche il terreno in cui il principe Calaf comincia il suo durissimo cammino iniziatico d’amore, a partire dall’incontro con suo Padre Timur e con la fedele schiava Liù, che ama il giovane più di se stessa. A differenza di Turandot, accecata dall’odio, i congiunti di Calaf, senza patria perché spodestati dal loro regno, non covano rancori, sono anzi colmi di gratitudine e di gioia per essersi ritrovati.

Calaf

Calaf

In questa piazza della vita, dove sta per aver luogo la decapitazione di un giovane pretendente della principessa, Calaf, nonostante lei non compaia ancora sulla scena, ne sente «il profumo nell’aria» e la riconosce con certezza come sua unica possibile Sposa. I lamenti supplichevoli di Timur e di Liù gli risuonano cupamente dentro, lo pregano di non gettarsi tra le braccia della morte, di sollevarli dal dolore per la sua perdita… ma egli vuole Vincere gloriosamente nella bellezza di Turandot.

Ma come mai lui al primo sguardo la ama? Una …tagliatrice di teste che oggi assumerebbero al volo in qualsiasi azienda? Anche il nostro Angelo ci ama, anche il nostro Io superiore ci ama, malgrado siamo carenti e omissivi, afflitti come siamo dalla tara del peccato originale. E… non molla. L’Io superiore non ci molla!, malgrado coi nostri Io inferiori gliene combiniamo di tutti colori. E anche il principe non mollerà mai Turandot, rischierà di venir decapitato pure lui, a un certo punto arriverà a maledirla, ma non retrocederà di un centimetro.

Ping, Pang e Pong, piccoli tarli chiacchieroni con indosso maschere raffiguranti il volto di Calaf, lo tormentano anche loro dall’interiorità, sminuiscono la principessa: perché accontentarsi di una faccia, due braccia, due gambe quando potrebbe averne cento? Inneggiano alla bellezza della vita e paventano l’unione come un disastroso salto nel nulla, Turandot non esiste! Non esiste che il niente nel quale ti annulli, perfino la folla (il lato di specie?) lo mette in guardia e si dichiara pronta a scavargli la fossa. …«Nel tuo nulla, saprò trovare il mio tutto!», così risponde Faust a Mefistofele prima di discendere alle Madri, e dovrà percuotere il terreno con il piede per scendere e poi per risalire. E con un triplice segno, anche Calaf sta per cominciare la sua coraggiosa discesa.

Tutto, compresi i fantasmi dei morti, si oppone alla volontà del giovane, senza però scalfirne la determinazione: egli rintuzza ogni obiezione, si dirige sicuro verso il gong e manda il fatidico segnale, percuotendolo con grande carica tre volte.

Il II atto si apre su un’atmosfera tinta dei colori decadenti del crepuscolo, fervono i preparativi in risposta all’affacciarsi di due ipotesi contrapposte. I personaggi sono scissi tra sentimenti estremi: se il principe scioglierà gli enigmi si agghinderanno festosi per le nozze regali, se invece resterà in silenzio si disporranno per accompagnare il rito lugubre della sepoltura. L’idea delle nozze mette allegria, mentre l’ennesima riproduzione del tragico epilogo si prospetta oltremodo noiosa, è palpabile l’esigenza di un rivolgimento. Nell’oscurità del mondo, la Luna si modella a immagine di un grande teschio, mentre l’imperatore, figlio del Cielo, si rivolge a Calaf con insistenza benevola: voglio morire senza portare il peso della tua giovane vita – così parla il sangue! -, ma l’altro ribadisce con impeto rinnovato la ferma volontà di affrontare la prova.

Il regista rende visibile l’anima di Turandot, lo struggimento è impresso nei tratti insanguinati della Luna, l’afflizione la trapassa da parte a parte come se la giovane ava, violata e uccisa, fosse la stessa Turandot in una vita precedente. Oppure perché il ricordo dei fatti atroci del passato, cristallizzati, si tramanda attraverso le generazioni. In un caso e nell’altro l’antenata continua in modo malsano a vivere in Turandot, facendone una sterminatrice seriale di principi stranieri.

Nel cammino verso la libertà e l’amore ognuno di noi ha da affrontare la propria eredità di dolore – la propria “ava” – portarla a coscienza e consegnarla al mondo trasformata.
Per la principessa, i tre enigmi preludono al pallido riflesso della morte, per il principe annunciano la fonte splendente della vita.

Gli enigmi sono tre, la morte è una!– dice lei.

No! No! Gli enigmi sono tre, una è la vita!– Così risponde lui.

I tre enigmi da risolvere, i tre nodi da sciogliere per vivere la propria biografia (sennò vi proietteranno la propria ombra mortifera) fanno pensare ai tre corpi della necessità: corpo fisico, eterico ed astrale. Ce li troviamo misteriosamente già fatti, sta a noi conoscerli per “rispondere” ad essi, responsabilmente. Li ereditiamo dal passato ma ci riguardano, con essi la vita ci interroga.

Con solenne freddezza Turandot enuncia il primo enigma:

Nella cupa notte
vola un fantasma iridescente.
Sale e spiega l’ale
sulla nera, infinita umanità!
Tutto il mondo l’invoca e tutto il mondo l’implora!
Ma il fantasma sparisce con l’aurora
per rinascere nel cuore!
Ed ogni notte nasce
ed ogni giorno muore!

Calaf si raccoglie in se stesso concentrandosi sulla sua meta: la speranza di raggiungere Turandot, l’amore!

Il secondo enigma introduce a un altro ingrediente fondamentale della nostra storia:

Guizza al pari di fiamma, e non è fiamma!
È talvolta delirio. È febbre
d’impeto e ardore!
L’inerzia lo tramuta in un languore!
Se ti perdi o trapassi, si raffredda.
Se sogni la conquista avvampa!
Ha una voce che trepido tu ascolti,
e del tramonto il vivido baglior.

L’imperatore, la folla, Liù lo sostengono e gli ricordano la meta: l’amore!
Calaf si strugge e pensando a Turandot trova la risposta: il sangue.

Resta da sciogliere il terzo enigma:

Gelo che ti dà foco
e dal tuo foco più gelo prende!
Candida ed oscura!
Se libero ti vuol, ti fa più servo.
Se per servo t’accetta, ti fa Re!

Nella scena, da un bambino (il suo io) gli arriva un suggerimento: Turandot!

Le prove non sono generiche, sono scolpite su misura per lui (e per ognuno di noi) dalle forze del destino e si esprimono per bocca di Turandot, la Pura.

Calaf le supera: La mia vittoria ormai t’ha data a me!, ma l’esultanza del successo gli si spegne sulle labbra, deve tenere a freno la sua impazienza davanti a una Turandot completamente destabilizzata! Posseduta da rabbia e da orgoglio rompe il sacro giuramento – era una legge da lei stessa stabilita, di sposare chi avesse risolto gli enigmi. Furente e umiliata si erge contro di lui, lo allontana sdegnosamente da sé e gli lancia una sfida:

Mi vuoi nelle tue braccia a forza, riluttante, fremente?

Ogni forzatura contraddice il principio stesso dell’amore, lo Straniero non può accettare accanto a sé un amore costretto, da una legge o da un giuramento, alla sottomissione:

No, no, principessa altera! Ti voglio ardente d’amor!

Il principe deve nuovamente disporsi a sacrificare la propria vita perché il dolore possa essere domato e deposto ai piedi luminosi del vero amore, e così a Turandot è posto un unico enigma: trovare il nome del giovane entro le prime luci dell’alba.

Ecco che si inserisce un fatto nuovo, non si svolge una pura ripetizione degli enigmi della Sfinge risolti da Edipo, come qui dallo straniero. La Sfinge-Turandot, sconfitta, non si getta nell’abisso, perché ormai nelle profondità del nostro corpo c’è già![v]

La Sfinge, Moreau

La Sfinge, Moreau

Cosa farne, di questa Sfinge ingombrante?, ormai l’uomo è cresciuto oltre l’Edipo, dopo il Mistero del Golgota ha in sé ben altre risorse da attualizzare, che gli permetteranno di redimere la Sfinge entro se stesso.

Questo passaggio dai tre enigmi al quarto ha importanza epocale!, anzi …eviterna. Calaf dunque mette al lavoro la Turandot, le dà a sua volta un enigma da risolvere, che è quello di trovare il suo Nome. Adamo nel paradiso terrestre sapeva dare i nomi a tutte le cose, ma noi oggi non abbiamo più questa onniscienza angelica.

…Da un lato, l’amore vero non può essere forzato, deve passare attraverso la libertà, e porgere a Turandot questo enigma del Nome da risolvere – che è l’enigma degli enigmi! –, significa metterla nelle condizioni di muoversi, di attivarsi in qualche modo. La promuove da interrogante a interrogata, ora lei dovrà usare quelle risorse sfingiche per trovare il Nome, che è come dire l’essenza.

Urge qui una precisazione su questo mistero del Nome.

C’è una differenza sostanziale tra:

  1. l’essenza di fatti di natura, dei tre regni;
  2. e …l’essenza di ogni singolo individuo umano che esiste.

Le due essenze vengono anche conosciute in modo diverso. Per le prime “basta” passare dall’esemplare particolare al concetto generale (prima metà della Filosofia della Libertà), occorre risalire all’idea: quaggiù vedo o tocco un cristallo, una viola, un leone e ne trovo il concetto universale – quella è la loro essenza!, identica per tutti gli esemplari di quella specie.

La seconda è già una conoscenza dello spirito[vi], il quale ha natura morale. Qui la conoscenza trova solo il suo inizio in quanto nell’uomo è generico, universale e ugualmente valido per tutti gli uomini sparsi sulla Terra, e infatti attraverso le varie scienze dell’uomo – antropologia, sociologia, psicologia, etnologia – possiamo studiarlo.

La conoscenza del singolo uomo parte allora dalla sua universalità, da ciò che ci accomuna quali esseri umani, ma poi per investigare quell’individuo deve ridiscendere a quello specifico uomo!, una specie a sé in quanto individuo. Deve ridiscendere alla sua esistenza, incomunicabile secondo Tommaso d’Aquino. Per trovare lo spirituale di un individuo dobbiamo guardare alla sua vita terrena, dobbiamo intuire quel singolo uomo.

Steiner ne parla espressamente, non a caso, solo verso la fine della Filosofia della libertà: a partire dal capitolo 14, seppur lo introduca in tutta la seconda parte.

Questo per comprendere che gran…gatta da pelare Calaf offra alla sua Turandot.

Il conoscere, atto iniziale di ogni “risoluzione”, è una faccenda che in primis riguarda colui che conosce, in questo caso Turandot – l’anima umana che qui ancora indossa le sue vesti terrifiche!, la strega cattiva di Biancaneve col suo bravo specchio lunare. Con lo specchio riflettente non può conoscere nessun vero nome: per risolvere l’enigma spirituale dell’individuo deve muoversi parecchio, deve trasformarsi. Perché solo uno spirito umano conosce un altro spirito umano.

III atto

Nelle tenebre assetate di sangue il boia affila le sue armi. Turandot, chiusa come una tigre tra le sbarre della sua indicibile sofferenza, scatena la sua ira contro il mondo: nessun dorma! Il terrore domina, l’intero popolo rischia la testa se non le consegnerà il nome.

Il messaggio “nella notte nessun dorma” però rimanda all’anima cosciente – che ha da mantenere il più possibile la coscienza di veglia, anzi portarla anche dove non c’è. Una notte atroce l’antenata era stata trucidata, ora la notte servirà per investigare il nome.

Altro leitmotiv dell’anima cosciente è il confronto col male, che la messa in scena attuale affronta (più ancora che nel libretto) senza mai …demonizzarlo. È evidente che attraverso la principessa, la Pura, il male opera eccome impersonalmente, ma solo perché lei ne è la prima vittima, e finché non gli si oppone una forza cresciuta nel contrastarlo.

Nella notte caotica e affollata di caccia senza tregua, altre tre prove attendono Calaf, che viene blandito con l’allettante offerta di donne discinte, esperte nell’arte della seduzione, gli vengono promessi immensi tesori e ricchezze, gli viene ventilata l’idea di aver salva la vita grazie a un infallibile piano di fuga… tutto ciò in cambio del nome.

Ma lui non ha dubbi:

Inutili preghiere! Inutili minacce! Crollasse il mondo, voglio Turandot!

E il destino, non pago, gli infligge la prova più ardua: il sacrificio dell’innocenza.

La poetica Liù

La poetica Liù dona la vita per amore del principe, lei conosce il nome e lo custodirà in seno fino alla morte. Il sacrificio non sarà vano, mostra che il Nome non può essere rivelato da altri, o estorto sotto tortura a chi lo conosce perché già ama. Cioè la schiava Liù, che infatti dice:

Ahimè, quanto cammino
col tuo nome nell’anima,
col nome tuo sulle labbra!

…Liù fa pensare all’anima candida, del Gesù del Vangelo di Luca, che da gran tempo è unita al Signore.

Turandot, meravigliata e attratta da tanta forza si fa largo tra gli sgherri e la interpella sull’amore, e Liù pervasa da sorprendente vigore, le parla con calore vibrante, mentre tutt’intorno cade la neve: Tu che di gel sei cinta… e predice che la fiamma dell’amore scalderà il cuore gelido della bella Turandot.

Morte di Liù

Morte di Liù

Interessante!

La boia femmina cui abbiamo già accennato (sulla destra, in abito bianco, lambito di rosso sangue) compare anche quando Liù si toglie da sé la vita! Perché Turandot è responsabile del suo immolarsi.

Timur, straziato per la perdita delle amorevoli cure, le dedica un meraviglioso inno:

Liù! Bontà, Liù! Dolcezza… Oh! camminiamo insieme un’altra volta… così, con la tua mano nella mia mano! Dove vai ben so. Ed io ti seguirò per posare a te vicino nella notte che non ha mattino…

Fin qui, alla metà del terzo atto, musicò Puccini, mentre l’epilogo finale che segue – un momento altissimo, rivoluzionario, altamente innovativo (puro futuro-futuro da sesto sottoperiodo culturale!, l’equivalente delle nozze di Cana) non a caso non riuscì a comporlo: sopravvennero la malattia e la morte.

Puccini

Lo farà il compositore Franco Alfano – scelto da Toscanini che poi rappresenterà l’opera nel 1926. Gli studiosi sostengono che la morte di Liù, la classica eroina pucciniana, sia già una sorta di conclusione, poi però ci vuole il coronamento a completare l’opera.

A quella chiave di volta di tutto il costrutto, Puccini lavorò strenuamente, ma non poté realizzarlo da vivo: doveva essere trapassato.

Ecco come si dispiega il coronamento.

Il sacrificio di Liù, che come un devastante terremoto scuote il mondo, e ciascuno, apre una breccia nell’anima di Turandot e questo permette a Calaf di avvicinarsi ad essa fino a stringerla dolcemente, cominciando a risanare quella terribile ferita, ormai cronicizzata.

Il tono della voce di Turandot, da acuto e rabbioso cede al calore, alla vulnerabilità, alla morbidezza, è incredula di provare il sentimento da cui, dilaniata dal conflitto, più che da ogni altro si è difesa:

C’era negli occhi tuoi la superba certezza… E t’ho odiato per quella… E per quella t’ho amato, tormentata e divisa fra due terrori uguali: vincerti o esser vinta.

Ora lei dovrà “abbandonare il suo tragico cielo e scendere giù sulla terra”, con il calore dell’amore dello straniero che le dirà il proprio nome, solo quando il cuore si scioglierà dal suo gelo e potrà aprirsi ad ascoltare la Parola, che nel cuore è sempre stata presente.

Lei dice:

Son la figlia del cielo…
libera e pura. Tu
stringi il mio freddo velo
ma l’anima è lassù!…

Per via del trauma dell’antenata, lei non si era del tutto incarnata, e non poteva amare.

Lui dice:

La tua anima è in alto!
Ma il tuo corpo è vicino.
Con le mani brucianti
stringerò i lembi d’oro
del tuo manto stellato…
La mia bocca fremente
premerò su di te…

In fondo, lei qui è ancora nelle condizioni di Biancaneve, incantata nella sua bara di cristallo. Anche noi siamo Biancaneve e Turandot, il nostro problema è di essere divisi: un manto celeste lassù e un corpo troppo lontano e diverso!, che si fonda sul gelo arimanico delle ossa, su quella paura atavica incistata.
Calaf si è sempre rivolto all’anima sofferente, sulla scena compariva l’anima tragica che era in Turandot, come una figura aleggiante su di lei, col viso grondante di sangue. Dopo l’abbraccio di Calaf l’anima non ha più il volto insanguinato, la stessa sua figura si allontana fino a svanire. Mentre la principessa si scioglie in lacrime. E in quell’istante spunta il Sole!

Finalmente l’atmosfera crepuscolare che aveva regnato sulla scena si dissolve e irrompe l’alba!
Viene anche l’ora in cui lui deve mettere nuovamente la propria vita nelle mani di lei, nell’ultima, decisiva, delle prove:

Il mio nome e la vita insiem ti dono! Io sono Calaf, figlio di Timur!

Lui le rivela il Nome, perché solo ora – dopo il pianto che ha espulso l’anima afflitta – lei è capace di ascoltarlo, di porgere un orecchio femminile alla Parola Io sono!

Turandot, sciolta dalle dolorose catene e vinta ogni resistenza, può accoglierlo come un Graal e il suo volto si apre al sorriso, splende di gioia dicendo: io so il tuo nome! Tutto è compiuto, e suggellato con un dolcissimo bacio. I due percorsi antitetici si uniscono giungendo alla felice conclusione delle nozze in cielo e in terra.

All’alba di una nuova era lo spirito umano trionfa, come preannunciato: Vincerò!

…Ovvero: io ho vinto il mondo (Gv. 16,33).

Sole e Luna, maschile e femminile, attivo e ricettivo, calore e gelo ora si fondono in una perfetta sintesi che armonizza ogni discordia, redime il passato, si volge al futuro declamando il solo nome che svela l’apoteosi della sua intima natura: Amor!

Scena finale Turandot

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[i] Per saperne di più: https://semprelibera.altervista.org/giacomo-puccini/turandot/turandot-trama-dell-opera/

[ii] Si vedano le conferenze di Steiner sulle Sorgenti della moralità in Cristo e l’anima umana, Editrice Antroposofica

[iii] https://www.pleroma.uno/post/i-5-elementi-della-medicina-tradizionale-cinese-secondo-l-antroposofia

[iv] Si veda Il Mistero del doppio, Rudolf Steiner

[v] Nelle conferenze intitolate Il mondo come risultato di processi di equilibrio: la Sfinge è indicata come Lucifero.

[vi] Si veda la distinzione tra Spirito e natura, nel capitolo F dell’O.O.2, Linee Fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo,Rudolf Steiner