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Serio e gioioso insieme

Goethes Märchen di Herman-Linde

Le condizioni estetiche della libertà

di Bodo von Plato

da una conferenza tenuta nel settembre 2021

Traduzione di Federica Gho

Essere umani significa voler diventare umani, prendere in mano il proprio futuro, che significa voler diventare liberi. Ma come si diviene liberi senza perdere la comunanza? Il gioco mostra la direzione in cui andare perché nel gioco si è gioiosi e seri a un tempo. La chiave è la bellezza, che riunisce l’individuale e il generale, l’io e l’umanità.

Di recente ho fatto un sogno. Una società di persone di svariati orizzonti e firmamenti si stava lentamente formando in tutto il mondo, in cerca della realtà. [dem Eigentlichen] A poco a poco, ci si è resi conto che la realtà è dove uno può prendere la propria esistenza sul serio gioiosamente. In questo modo diviene unico e reale – e perciò incarna la persona politica.

Così seriamente e gioiosamente, una serietà gioiosa, una gioiosità seria. Si rappresentavano così l’esistenza, questo era il modo in cui questa società del sogno intendeva l’esistenza; coloro che vedevano se stessi e gli altri in questo modo sono diventati reali e unici. E nessuno di loro ha avuto l’idea di confrontare l’uno con l’altro o l’altro con l’uno: sarebbe un assurdo, estraneo all’unicità.

Ma nel sogno rimaneva una condizione (sembrava evidente e chiara a tutti), che ognuna di queste persone fosse vista da almeno uno e che a sua volta ne vedesse un altro. Come condizione di esistenza, perché questa diventi unica e reale, ci vuole reciprocità.

Iniziò così ciò che non solo nei sogni ma anche nella veglia diviene possibile: gli uomini sono indubbiamente esseri individuali e allo stesso tempo esseri politici; sono fondati in se stessi e allo stesso tempo sono parte di una comunità; sono inconfondibili e sociali. Qui il contrasto appare superato, migliorato, trasformato: individuo e società sono non mescolati e non separati.

Goethes Märchen di David Newbatt

Il risveglio della bellezza libera

Alla fine del 18° secolo Schiller si risvegliò al contatto con la coscienza di Kant e scoprì nella veglia sognante due concetti fondamentali della futura arte di vivere: reciprocità e trasformazione. Trasformazione attraverso la reciprocità: il mistero di un’educazione estetica dell’essere umano, la nascita di una nuova fase del pensiero, del giudizio, dell’azione umani.

Le Lettere sull’educazione estetica dell’uomo di Schiller documentano una scoperta senza precedenti. La fine del 18° secolo è la culla di tante cose di cui oggi viviamo le conseguenze. L’Illuminismo è sorto nell’Europa centrale, ci si è resi conto che la ragione, la mente e l’intellettualità possono comprendere e organizzare il mondo in modo diverso. Allo stesso tempo, si è risvegliata una comprensione completamente nuova della materia e dei processi, della tecnologia e dell’economia. È iniziata l’era dell’industrializzazione.

Hans Wildermann, Goethe, Das Märchen

Kant è il gigante di questo potere riflesso, egli pone le questioni decisive, fondandosi su Cartesio, per rendere gestibile la ragione. Pone domande rispetto al pensiero stesso, cioè per il conoscere; rispetto alla realtà politica, cioè come l’azione sociale cosciente diventa possibile; rispetto al modo in cui formiamo i giudizi, vale a dire per la sfera estetica.

Per Kant era chiaro che il nostro sentire la bellezza è una questione soprattutto soggettiva. Una realtà indipendente dal soggetto esiste, e l’esperienza della bellezza è sì connessa soggettivamente a tale realtà, ma vi è comunque connessa (e allora più che solo soggettivamente) – per Schiller, che si confrontava col grande maestro, con gli sconvolgimenti politici del suo tempo e col suo amore per la libertà, diventava sempre più chiaro che la bellezza è la cosa più oggettiva che ci sia; e può essere sperimentata individualmente e solo individualmente. Un senso della bellezza visto come il più universale, a cui conduce solo un approccio del tutto individuale, diventa la chiave di un nuovo ordine politico, veramente libero, cioè umano, «perché è la bellezza il mezzo attraverso cui progrediamo verso la libertà». (1a lettera).

la bella Lilia

È qui che nasce la tensione in cui viviamo oggi, più di duecento anni dopo: so di essere un individuo, ma d’altro canto c’è un mondo intero che va per la sua strada. Ne sono corresponsabile? Qual è il rapporto tra me come essere umano, che sente personalmente, e l’umanità in generale, e perfino il destino della Terra? Come sono collegati il singolo e il generale, l’oggettivo e il soggettivo?

Non più domande filosofiche, bensì esistenziali. Ma dove si possono vedere oggi le conseguenze della scoperta dell’estetica?

Tre Soglie

Schiller è partito da una domanda politica: in una società come può realizzarsi una vita degna dell’uomo? Come si fa a non perdere il mondo quando scopriamo noi stessi e a non perdere noi stessi quando amiamo il mondo? Come possiamo conseguire la nostra umanità nelle condizioni sociali e di civiltà che creiamo, e come fa un mondo creato dall’uomo a realizzare la sua umanità?

Il sistema feudale dell’Alto e del Basso Medioevo, in vigore fino ad allora, corrispondeva sempre meno alla realtà, ai bisogni, alle capacità e alle condizioni delle persone che lo abitavano. Sempre più spesso ricercavano (invano?) forme di vita private e sociali in cui ogni singolo potesse partecipare alla totalità dei processi di progettazione e di decisione. Il modo in cui si voleva pensare, sperimentare e vivere la vita e la società è cambiato radicalmente. Detto in breve, si trattava di un risveglio dal farsi determinare dall’esterno, dalla natura e dalle altre persone, di un risveglio all’autodeterminazione. Questo accadeva in quel tempo, almeno tanto cambiato quanto quello di oggi, in cui (dobbiamo) imparare a vivere in un mondo virtuale fatto da noi e capire che la sopravvivenza della Terra dipende da come (vogliamo) vivere, da come viviamo. Adesso siamo a una soglia diversa, più esistenziale, ma la precedente ne è il presupposto, e probabilmente contiene i semi per attraversarla.

La domanda di soglia è: come vivere?

Non siamo forse già entrati oggi in un’epoca in cui modellano la nostra esistenza leggi e prescrizioni, che hanno origine nella coscienza e non solo nella natura? Come umanità, abbiamo già varcato una soglia nella vita che l’individuo deve prima attraversare passo dopo passo nella coscienza, per poter davvero stare nella vita? Abbiamo forse varcato questa soglia – inconsciamente – tra la fine del 18° e l’inizio del 20° secolo? E se ne accorsero sempre più persone, prima singoli individui come Schiller e ben presto furono tanti, nel corso del 20° secolo, e infine, all’inizio del 21° secolo, diverrà sempre più chiaro all’umanità che ogni singolo essere umano vuole varcare nella coscienza una soglia che nella vita ha già varcato? Una soglia che ci porta a quale coscienza?

Come vivere – in quale coscienza?

Schiller capì che l’essere umano (solo) legandosi alla bellezza diverrà libero. Egli ha visto che vita e coscienza nella bellezza convergono, che in essa questa opposizione apparentemente inconciliabile non viene eliminata ma trasformata. Egli cercava un Impero, uno Stato, un ordine della società in cui ciò divenisse possibile, in cui potessero vivere «anime affinate» (27a lettera).

Oggi tutti sono effettivamente «anime affinate», mi sembra. È il rovescio della medaglia dello sviluppo razionale, industriale e, forse ancor più, proprio dell’evoluzione digitale che con velocità crescente conduce le anime molto affinate, molto sensibili, timide, ansiose, attente, insicure, ricercatrici, a diventare più autonome, responsabili nel chiedersi: come e in quale mondo vive la mia coscienza; in quale coscienza io vivo?

«Dare la libertà attraverso la libertà è la legge fondamentale di questo regno». Un ordinamento di «belle apparenze» che vive secondo necessità in ogni anima affinata (ibid).

Ma allora è lì, nell’anima che si interroga! Quindi lei cerca, e non trova; s’accorge, prima o poi, in modo più lieve o più doloroso: che deve agire lei stessa; l’autodeterminazione, a malapena raggiunta, diviene creativa. Del resto, un ordine libero, cioè intenzionale, della «bella apparenza» sorge non in essa, ma là, là fuori tra gli esseri umani, poi anche e infine nella Terra – prima o poi, in modo più facile o più difficile.

La realtà dell’apparenza estetica*

[*ndt: Schöner Schein, così scrive Schiller: l’apparire, il baluginare del bello dal gioco delle polarità]

La bella apparenza? Che cos’è questa bella apparenza? Il mio sogno abbozzato è connesso alla sua realtà? Sì, attraverso la reciprocità e la trasformazione esso si risveglia alla bella apparenza, alla realtà che va oltre la contrapposizione tra natura e autocoscienza.

Se domani sarò uguale a oggi, diventerò non vero, perché non diverrò più. Se non sono inserito nel divenire, divento non vero, perché allora nella mia esistenza non c’è alcuna consequenzialità.

Una persona normale ha forze razionali, modellanti e formative. La coscienza quindi si pone costantemente in relazione con ciò che è accaduto e sta accadendo all’esterno o nell’interiorità. Allo stesso tempo siamo persone che vivono sensualmente-sensorialmente [sinnlich], fisicamente, e spesso non sappiamo perché vogliamo ciò che accade attraverso i nostri corpi, i nostri istinti, inclinazioni, bisogni e passioni, attraverso la nostra vita.

Schiller non giudica più moralmente questi aspetti, ma gioca instancabilmente con loro come condizioni e possibilità umane contrapposte da cui, qualora vengano messe in gioco l’una con l’altra e non l’una contro l’altra, può divenire una realtà nuova: il bagliore, il bello, una realtà umana non solo oggettiva e non solo soggettiva; non solo una realtà creata dall’uomo, ma anche una realtà voluta dall’uomo.

Come coppia principale di opposti, egli osserva da un lato la coscienza, grazie alla quale l’uomo si dà una forma che lo porta oltre se stesso, e dall’altro lato la sensazione in cui egli è rimesso a se stesso. Schiller le descrive entrambe in innumerevoli varianti, alla fine persino come forze, che suscitandosi e fecondandosi a vicenda come impulsi alla forma e alla sostanza, compongono una nuova, terza condizione: l’istinto del gioco [Spielentrieb]. (14a lettera)

L’impulso a giocare dà vita a un legame individuale, unico, sempre imprevedibile, tra sostanza e forma, tra spirito e materia. Cento anni dopo, nella Filosofia della libertà Steiner afferma: certo, c’è un dualismo nel mondo: spirito e materia; ma c’è un essere composto interamente da questi due. E questo essere è uno. Inizialmente si considererà (e dovrà considerarsi) dualista quando prenderà coscienza di sé; ma di per sé è uno. Questo che è da realizzarsi, Steiner lo chiama esperienza dell’idea, o monismo, che diviene effettivo solo quando l’uomo diventa consapevole della sua coscienza che agisce nel mondo (come mondo).

Karl Schmidt-Rottluff: Brücke mit Eisbrechern, 1934, Brücke-Museum Berlin

Man mano che Schiller riconosce ciò che Steiner esprime così cento anni più tardi, può trovare la sua strada nella pratica della vita, della cultura e della professione, sì, anche in forma di istruzione superiore, sicché egli crea in modo filosofico-poetico un mondo nuovo, all’inizio in forma di pensiero ma in modo unitariamente umano. Per quanto tempo spirito e materia hanno dovuto essere separati, estranei e ostili l’uno all’altra per potersi finalmente congiungere in questo modo – nella coscienza e da lì con una prospettiva sulla vita (Franz Rosenzweig)?!

Più tardi, nella seconda metà del XX secolo e seguendo Rosenzweig, Hans Jonas nel suo mito dell’uomo responsabile e del Dio in divenire, mostra come tutto il mondo già vivente tremò quando apparve questo essere: questo essere meraviglioso, che stava diventando sempre più capace di (ri)conoscersi; che impara mentre vede altri che sanno a loro volta (ri)conoscere [erkennen] e scoprire l’antica onnipotenza di Dio nella loro capacità di (ri)conoscere, in modo che Dio divenga.

Io sarò e sono; Dio è e sarà – la grande trasformazione. (Il concetto di Dio dopo Auschwitz)

Questa metamorfosi che avviene mediante le reciprocità si risveglia più o meno consapevolmente e volontariamente. Un terzo elemento nasce dall’incontro di due cose diverse, qui Dio e uomo, là sostanza e forma, o materia e spirito, o sensazione e pensiero. Schiller questo terzo elemento lo chiama gioco, l’istinto al gioco, che realizza l’apparir del bello – realizzato [realisiert] nei due sensi della parola: il percepire/svolgere (Wahrnehmen) e l’inverare (Verwirklichen).

Il pensiero diventa sentimento e volontà

Nelle ‹Lettere Estetiche› ha inizio un pensare che rende possibile un nuovo sentimento e una nuova volontà, cioè: una vita trasformata, una forma vivente – in una parola: un’arte di vivere.

«L’oggetto dell’impulso dei sensi, espresso in un concetto generale, si chiama vita nel senso più ampio del termine; un concetto che comprende ogni essere materiale e tutto quanto si presenta immediatamente ai sensi. L’oggetto dell’impulso configurativo, in senso generale, si chiama forma, sia nel suo significato improprio quanto in quello proprio; un concetto questo che racchiude ogni natura formale delle cose e ogni rapporto delle cose con la facoltà del pensiero. L’oggetto dell’istinto del gioco presentato in uno schema generale potrà quindi essere chiamato forma vivente; concetto che designa tutte le proprietà estetiche dei fenomeni e, in una parola, ciò che in senso più ampio vien chiamato bellezza.

Questa spiegazione, quand’anche fosse tale , non estende la bellezza all’intero regno dei viventi, né si restringe solo a quel regno.

Goethe first illustrated edition

Un blocco di marmo, sebbene sia senza vita e tale rimanga, può tuttavia diventare forma vivente per mezzo dell’architetto o dello scultore. Un essere umano, sebbene viva e abbia forma, è ancora ben lontano dall’essere forma vivente: è perciò necessario che la sua forma sia vita e la sua vita sia forma. Finché pensiamo solo alla sua forma, essa è senza vita, è mera astrazione. Finché sentiamo solo la sua vita, essa è informe, è mera impressione. Solo quando la sua forma vive nella nostra sensazione e la sua vita s’informa nel nostro intelletto, diviene forma vivente. E sarà sempre così, là dove lo troviamo bello». (15a lettera)

Dovrei prestare attenzione a questo consiglio, quando sperimento gli esseri umani come impressioni o li penso come astrazioni; e com’è ovvio che raramente appaiano belli. Ma se non mi aspetto nessuna bellezza e cerco di pensare all’uomo in tutte le sue condizioni, al suo aspetto e alla sua vita, di sentire la sua forma e la sua coscienza, senza dunque rifuggire né astrazione né impressione, ma semmai equilibrandole l’una con l’altra, sto allora cominciando a ‹vederlo›? Sto iniziando a sprigionare bellezza?

Chi gioca diventa bello

Creare bellezza? Giocosamente, cioè in allegra serietà e in seria allegria? Un gioco – che «non è a caso né soggettivamente né oggettivamente e neanche necessario né esteriormente né interiormente» – e la visione della bellezza, dove l’animo [Gemüt] si trova «in una felice via di mezzo tra legge e desiderio», si incoraggiano a vicenda a divenire ciò di cui sono rispettivamente capaci. Sì, c’è ancora di più: «L’uomo deve soltanto giocare con la bellezza, e solo con essa ha da giocare». (Ibid.)

In questa persona giocosa, bella, la vita prende forma e la forma prende vita – anche nella visione di me stesso, ma soprattutto nella visione dell’alterità dell’altro.

«L’uomo gioca soltanto dove è umano nel pieno senso della parola, e solo allora è completamente umano: quando gioca. Questa frase […] assumerà un significato ampio e profondo solo quando arriveremo ad applicarla alla duplice serietà, del dovere e del destino». (Ibid.)

È qui che al più tardi inizia una nuova, consapevole, umanizzazione: Schiller sostituisce il dovere con la libertà (quale?) e il destino con l’autodeterminazione nel giudizio. Comincio a valutare [beurteilen] il mio giudizio invece di condannare [verurteilen] il giudizio; porto a coscienza un’attività che ho sperimentato per la prima volta quando, ancora senza frapporre alcuna riflessione, questo mi piaceva e quello no. E questo gioco sosterrà «l’intero edificio dell’arte estetica e dell’ancor più difficile arte di vivere» (Ibid.)

L’arte di vivere ha ovviamente come prerequisito che io cominci a prendere la mia vita seriamente e giocosamente, soprattutto quando giudico. Laddove non ho portato a coscienza il modo in cui sono arrivato a un particolare giudizio, lo prendo con gioia e su quel giudizio non mi fonderò. Però il mio giudizio cosciente lo prendo sul serio, cerco di capire il modo in cui si realizza, non mi sottraggo alla mia responsabilità, voglio scandagliare [ergründen] l’origine di ciò che si è realizzato, o perlomeno il contesto. Ci vuole pazienza, ma in tal modo io stabilisco una relazione, una reciprocità tra me e me, tra conscio e inconscio, tra me personalmente e qualcosa che in me va al di là di me.

Come arrivo a un giudizio personale, in cui allo stesso tempo appaia una verità indipendente da me? Come riesco a individualizzare qualcosa, sì che risalti l’universale? Universalizzare, ossia generalizzare; e individualizzare, cioè comprendere veramente a livello personale; di solito noi sentiamo individualmente e pensiamo universalmente; posso universalizzare i miei sentimenti e individualizzare il mio pensiero? Entrambi me li trovo: il sentire sognante e il pensare ridestante. Da dove vengono?

«E così sentimento e autocoscienza sorgono senza che il soggetto faccia alcunché. E l’origine di entrambi è al di là della nostra volontà [Wille], così come è al di là della nostra sfera di conoscenza». (19a lettera)

Per l’essere di sentimento e l’essere che diviene autocosciente sorgono due limiti. Un limite di volontà rispetto all’origine di questi due fenomeni e un limite di conoscenza rispetto alla volontà. Ma va oltre: «Se entrambi sono reali e l’uomo ha conferito un’esistenza ben precisa all’esperienza della sensazione e se attraverso l’autocoscienza ha sperimentato la propria esistenza assoluta, allora con i loro oggetti divengono attivi anche entrambi i suoi istinti fondamentali [Grundtriebe]». (Ibid.)

L’autocoscienza e i sentimenti, non appena ci rendiamo conto che (ri)conoscerli non rientra nell’ambito della nostra volontà, e che non possiamo (ri)conoscere questa volontà, acquistano una forza propria trainante, una spinta.

«L’istinto dei sensi si risveglia con l’esperienza della vita, quello razionale con l’esperienza della legge, e solo ora, dopo che entrambi sono venuti all’esistenza, è edificata la propria umanità». (Ibid.)

Goethes Märchen di Herman-Linde

Nel momento in cui l’uomo prende coscienza di questi due istinti, diviene parte di un’umanità che proprio attraverso queste due qualità, è divenuta e va intesa come unitaria. «Finché questo non avviene, tutto in lui si fa secondo la legge di necessità; ma ora la mano della natura lo lascia andare ed è affar suo affermare l’umanità, che la natura ha deposto e schiuso in lui». (Ibid.)

L’uomo è un essere di natura entro un’umanità sulla via dell’autocoscienza, finché lui stesso non solo diventa cosciente della propria vita, ma vive anche nella propria coscienza.

«Infatti appena i due opposti istinti fondamentali si attivano in lui, perdono entrambi la loro coercizione. E la contrapposizione di due necessità è scaturigine di libertà». (Ibid).

Giocare per risvegliarsi

Questo è un punto di svolta nella storia spirituale, che ancora oggi cerca il suo risveglio, seppure adesso esistenzialmente. Il suo risveglio, individualmente voluto da un sogno della ragione in cui la coscienza domina la vita senza lasciarla risvegliare in sé. Il singolo essere umano sogna, anche se si crede ragionevole e libero«un animale ragionevole». (24a lettera)

«A scanso di equivoci, vorrei sottolineare che tutte le volte che qui si parla di libertà, non si intende ciò che appartiene di necessità all’uomo, inteso come intelligenza, e non gli può essere né dato né tolto, ma è ciò che si basa sulla sua natura mista. Agendo in modo solo ragionevole, l’uomo mostra una libertà del primo tipo; agendo in modo ragionevole entro i limiti della materia e agendo materialmente soggetto alle leggi della ragione, mostra una libertà del secondo tipo». (Ibid.)

Una cultura estetica, in cui impariamo a giocare, ci porta alla soglia del risveglio dal sogno di rendere virtuale la ragione.

E un’arte di vivere che dal vivere nella coscienza non disdegna nulla del mondo dei fenomeni [der Erscheinung], ma che scopre la realtà [das Eigentliche] nel bel mezzo dell’esistenza, e non oltre.

Entrambe sono capaci non solo di pensare «l’attuabilità dell’infinito nella finitezza» (25° lettera) ma anche di volerla.

Questa volontà è decisione. Dalla prima libertà diviene possibile una decisione per la seconda. Quella è, questa è libera.

Solo l’io può farlo, non senza il viatico e l’incoraggiamento vicendevole, serio e gioioso, del (ri)conoscimento reciproco, che invece di un correggere saccente su convinzioni idealistiche, diviene la condizione estetica della libertà e della vita.