Close

Osservando i papaveri

Le Papaveracee

Straordinaria e generosa, quest’anno, la loro fioritura rossa: popolando interi campi, le bordure e persino spuntando dalle fenditure dell’asfalto, si erge flessuoso il papavero. Per chi voglia interessarsi a questa creatura abbiamo riunito alcune delle belle pagine a lei dedicate dal Pelikan.

Buona lettura!

Wilhelm Pelikan, Le piante medicinali per la cura delle malattie, Natura e Cultura, vol 1, pp. 88-96

Le Papaveracee

Il tipo

Le specie appartenenti alla famiglia delle Papaveracee hanno in comune la caratteristica di partire dall’elemento acqueo senza mai indurire o lignificare, unendo intensamente questa natura acquosa-liquida con la luce. All’inizio la foglia mostra una tendenza tondeggiante, ma poi sviluppa ricche segmentazioni e diversificazioni. Questo tipo non ha il potere di resistere e di attendere a lungo nell’elemento fogliare: passa rapidamente ad una potente fioritura, lussureggiante, colorata. La natura fortemente floreale di questa famiglia si manifesta nelle sontuose corolle dei papaveri (bianche, gialle, rosso vivo), nei grappoli a più gradazioni di colore delle coridali, nelle nubi violette della fumaria sospese sopra al suolo, ecc.

Benché fortemente determinata da processi eterici, collegati all’elemento liquido, la pianta è permeata da una potente sfera astrale che accelera i suoi processi vitali per arrivare più in fretta al fiore, il quale assorbe e consuma le forze eteriche. Per questo il fiore ha una durata molto breve; dalla schiusura lascia cadere i sepali nel mondo inorganico; i petali li seguono poco dopo; il processo floreale, presto consumato, rigetta calice e corolla come fossero cenere. E nonostante le foglie siano piene di linfa, nulla della loro natura acquosa viene trasmesso al fiore, a volte privo di nettare, a volte sovraccarico di polline, come nei veri papaveri. I frutti sono capsule o silique secche. I semi minuscoli e poco inclini alla gravità sono gonfi di oli grassi. Queste piante, la cui base è così verde e piena di vita, terminano superiormente con il disseccamento. Ma la sfera astrale non solo causa questa metamorfosi tra il basso e l’alto; si impadronisce con forza del liquido stesso, vi si imprime e rende tossico il lattice. Gli alcaloidi delle papaverace nascono così da un metabolismo divenuto abnorme, da una devitalizzazione dell’albumina portata verso il processo di decomposizione. (…)

Le Papaveracee prosperano nella luminosa estate nordica, prediligono le alte montagne dell’Europa e dell’Asia, crescono abbondanti nell’emisfero settentrionale e temperato, fino al bacino mediterraneo, con le sue estati infuocate. Sono assenti nei Tropici, nei deserti e nelle steppe, ma rifuggono anche l’ombra delle foreste e le paludi; non si presentano mai come specie acquatiche e nemmeno come alberi, piante grasse o parassite. Il loro organismo pieno di linfa non può fare a meno dell’acqua, che tuttavia non influenza la loro forma. Hanno bisogno di aria penetrata dalla luce, portatrice di influenze cosmiche, come quella del nord e delle alte montagne o, in estremis, quella della regione mediterranea.

Come accennato, le Papaveracee rifuggono i Tropici, dove le forze del cosmo tendono a “terrestrizzarsi”. In queste piante scorgiamo un mondo liquido che tende a riversarsi nella luce, nell’aria e nel calore e che genera il lattice di queste piante come reminescenza dell’antico liquido proteico (per esempio: Papaver Somniferum).

Sono le forze lunari a governare l’elemento acquoso: da un campo di papaveri in fiore salgono le immagini malinconiche di un sogno lunare. Il loro profumo narcotico paralizza la nostra coscienza razionale terrestre, che è una “coscienza dell’oggetto” e ci porta in un mondo di sogni illusori. Ci strappa al mondo del “dolore creatore” che è quello delle cose terrestri fisiche, solide e ben delimitate, per poi immergerci in un mondo di immagini senza contorni precisi, ma variabili all’infinito, che emanano dalla sfera dei nostri desideri, della nostra anima. Ma la ricchezza floreale delle papaverace fa uscire dal dominio dell’elemento liquido per entrare in quello dei processi luminosi e calorici portati e sostenuti dall’aria.

Proprio nei fiori la sfera astrale diventa percepibile come forma e colore, mentre prima della fioritura essa agiva molto diversamente nel chimismo degli scambi metabolici. Ciò che nel regno dell’etere chimico (al quale appartiene l’elemento liquido vitale) è dinamica, diventa immagine nei regni dell’etere di luce e di calore. Nella trasformazione da dinamica a immagine la sfera astrale impressa nel chimismo vitale si ritira; gli alcaloidi tossici svaniscono quando la pianta matura e i semi ne conservano solo delle tracce. Questa astralità non agisce più allora nel mondo delle sostanze. Si manifesta invece nei colori molto vivi, nelle forme floreali bizzarre; si libera con il potere narcotico del profumo. La tossicità diminuisce quando la Papaveracea lascia il regno acquoso lunare per entrare nel regno solare di luce e calore, dove si forma il seme. Ma appena questo seme germina nell’oscurità umida del suolo, i liquidi della giovane pianta si compenetrano nuovamente di veleni.

Per quanto riguarda le proprietà tossiche e medicinali delle Papaveracee ecco a grandi linee ciò che si osserva: in corrispondenza al rapporto “anomalo” osservato in queste piante tra la sfera astrale e quella fisica eterica, i loro veleni intervengono vigorosamente nelle relazioni tra il corpo astrale dell’uomo e il resto dell’organismo. In dosi piuttosto forti, il corpo astrale viene espulso dai domini organici con i quali è normalmente collegato. Quando esso è poco attivo, delle dosi blande lo stimolano.

Nel dominio neuro-sensoriale, sotto l’effetto dei veleni del papavero, si osservano: paralisi dell’attività sensoriale, oscuramento della coscienza, perdita di sensibilità, assenza di dolore (poiché è nel corpo astrale che avvertiamo il dolore, le sensazioni). E infine abbiamo narcosi e perdita dei sensi. Uno stato analogo al sonno si instaura dopo l’allontanamento del corpo astrale. Ma una parte del corpo eterico rilascia anch’essa i suoi legami con il corpo fisico (se si stacca totalmente, la dose è mortale), per cui si formano delle immagini fantastiche abnormi che scaturiscono dalla natura del corpo astrale, per esempio dalle brame, e dall’espressività fluttuante del corpo eterico. Così possiamo comprendere come agiscano da stupefacenti l’oppio e i suoi derivati.

Il sistema delle membra, grazie al quale l’uomo interviene volontariamente nel mondo esterno, si paralizza quando un mondo illusorio, fantastico, prende il posto del mondo oggettivo dello stato di veglia. Prima si avverte una sensazione di controvoglia, poi un’incapacità di lavorare attivamente. Anche il metabolismo rallenta e alla fine cessa di funzionare.

La genesi del lattice nel regno vegetale

Papavero

La produzione di lattice in alcune piante e in intere famiglie (Papaveracee, Ficacee, Euforbiacee, Campanulacee, Apocinacee, Asclepiadacee, Moracee e Cicoriacee, che sono una suddivisione delle Composite) è un enigma botanico, impossibile da risolvere se si cerca il fine, la causa. È stato proposto che il lattice, grazie alla sua rapida coagulazione al contatto con l’aria, sia destinato a guarire le piaghe della pianta oppure a scoraggiare gli erbivori con il suo sapore di solito amaro. Ma la maggior parte delle specie vegetali sopravvive benissimo anche senza lattice, mentre molte delle piante che lo contengono vengono consumate dagli animali. L’albero del latte del Venezuela “fornisce un succo corticale dal gusto un po’ zuccherino che ha l’aspetto del latte di mucca” (secondo Warburg). Che dire di questa analogia? Troviamo il latte unicamente nei Mammiferi e nell’Uomo. Gli animali inferiori che sono molto più “aperti al mondo”, ricevono fin dalla nascita, proprio dall’esterno, il loro cibo. Allo stesso modo, l’uomo e i mammiferi, prima di nascere, sono ancora nutriti dai tessuti viventi che li circondano. La loro esistenza embrionale è una forma primitiva dell’essere: l’embrione riceve il suo nutrimento vitale dalla placenta materna, mentre il neonato beve il latte, formato a partire dal sangue materno, ma già più esteriorizzato.

Il sangue alimenta l’intero corpo, ma più scendiamo nella scala evolutiva degli esseri viventi, più vediamo i processi sanguigni trasporsi nel mondo esterno, al di fuori del corpo: il calore del sangue, interno negli animali a sangue caldo, è esterno negli animali a sangue freddo (o meglio, a calore variabile). La composizione dei sali sanguigni ha molta somiglianza con quella dell’acqua marina. Negli animali marini (ad esempio la stella di mare), l’acqua marina viene aspirata, circola nell’organismo ed è in seguito espulsa; in un certo senso è il mare il sangue di questo organismo, come affermano il dottor Kolisko e il dottor Poppelbaum nei loro studi.

È stato spesso detto che la composizione salina del sangue dell’uomo è la reminiscenza delle acque marine primordiali che egli aveva intorno nel suo stato originario e che ha introdotto all’interno nel corso dell’evoluzione.

Ma qual è il rapporto tra il latte, il sangue e il lattice delle piante? Nello stato attuale dei regni naturali questo rapporto non è riconosciuto. La somiglianza esteriore non ha grande significato, ma se si riflette sulla storia dei regni naturali tutto cambia. La vita embrionale e la vita degli animali inferiori ricordano le fasi più antiche dell’esistenza terrestre e dimostrano come certi processi alimentari e organici, ora interiorizzati nell’uomo, erano in passato situati alla periferia dell’essere vivente. Con questa riflessione retrospettiva vediamo anche svanire la distinzione tra i regni naturali: l’esistenza umana è stata in passato molto più simile, di quanto lo sia oggi, a quella delle piante. Più si torna indietro dallo stato consolidato di uomo adulto verso gli stati plastici dell’infanzia e della vita embrionale, più si assiste ad una metamorfosi che fu quella di tutto l’organismo terrestre, portata dal processo di indurimento nel tempo.

Si è già accennato [nelle pagine precedenti del volume NdR] al rapporto che intercorre tra lo sviluppo della terra e quello dell’uomo stesso, come lo descrive la ricerca scientifica antroposofica. Si è anche parlato dello stato della cosiddetta antica luna, di come dai suoi tre regni naturali, ad esempio, si formarono i quattro regni sulla terra (minerale, vegetale, animale, uomo). Così come ogni embriogenesi riproduce in breve la storia evolutiva della specie (legge biogenetica), allo stesso modo l’antica fase “lunare” dell’organismo terrestre si riprodusse nell’epoca detta lemurica della nostra evoluzione.

In tale epoca, che rappresenta la fase embrionale della terra, la vita era molto più potente e i suoi processi molto più intensi. L’uomo, l’animale e la pianta si somigliavano molto di più rispetto ad oggi, in quanto erano meno differenziati. La terra viveva ancora “come collegata al cordone ombelicale del cosmo” (Günther Wachsmuth). La vita si svolgeva nell’involucro esterno, dal quale non si erano ancora separati gli elementi a formare il nucleo solido terrestre. L’involucro conteneva il mondo vegetale; esso si presentava come un insieme fluttuante di albumina, in cui galleggiavano le giganti forme vegetali, simili alle nuvole in continua espansione e decomposizione. Così come in determinate fasi dello sviluppo embrionale non sono ancora presenti le strutture ossee, analogamente sulla terra non si erano formate le strutture minerali in quanto concentrazioni di materia inorganica. Tanto meno “morta” era l’aria, come invece lo è oggi. La terra ha potuto assumere il suo aspetto presente solo dopo l’espulsione della luna verso la fine dell’epoca lemurica, quando “l’essere terra” nacque insieme a quell’equilibrio di forze che tuttora lo sostiene. Rudolf Steiner ha rievocato quell’epoca e quella atmosfera nel suo libro La Scienza occulta.

Anche allora esisteva la stretta relazione tra umanità e mondo vegetale. L’uomo di allora, ancora molto vegetale (ad immagine dell’embrione attuale), si nutriva mentre respirava, aspirando un tipo di latte originale che non era altro che la sottile albumina dell’atmosfera; il mondo vegetale invece riceveva dall’uomo le forze formatrici eteriche che egli doveva rigettare per continuare il suo sviluppo. Se l’uomo avesse conservato il suo immenso vigore di allora, non avrebbe mai potuto acquisire coscienza, saggezza e intelligenza terrestre, poiché queste sono legate all’attenuazione delle forze vitali e non (come ancora spesso si crede) al loro sviluppo. L’uomo dovette sacrificare una grande parte delle sue forze vitali ed incorporare delle forze di morte. E ciò che è stato simbolizzato dal mito della caduta, del peccato originale… (che la pianta ignora). L’uomo si ritrova quindi, in un certo senso, in tutte le creature naturali che lo circondano oggi. Esse furono un tempo parti integranti dell’uomo.

Quando, dopo l’epoca lemurica, l’uomo e tutta l’esistenza terrestre discesero nella materia, nacquero l’acqua, l’aria ed il suolo terrestre minerale a partire dalle loro fasi preparatorie. I regni naturali furono tutti sottoposti a processi di atrofia e densificazione. I vegetali originali immersi nell’atmosfera di albumina lattiginosa (di cui alcune alghe giganti sono reminiscenze) si trasformarono, divennero poco a poco le piante che oggi conosciamo. Alcune di loro però, quelle che producono il lattice, ritennero al loro interno il processo galattogeno vegetale che non era più possibile portare avanti nell’aria terrestre mutata (quella odierna), meno vitale dell’albumina primordiale.

Ecco cosa si può dire del lattice in generale. Quello delle Papaveracee, con la loro speciale tossicità, rappresenta però qualcosa di più particolare di cui ora parleremo brevemente.

Il divenire dell’essere umano a quei tempi è sempre stato il motore del divenire della natura. La natura è ciò che l’uomo ha rigettato da se stesso nel corso dell’evoluzione. Nella transizione tra l’era lemurica e l’era atlantidea che le succedette, avvennero nuovi processi in particolare la nascita degli organi sensoriali, il cui compito è di percepire il mondo esteriore oggettivo (un mondo di oggetti). Parallelamente, il sistema nervoso si concentrò nel cervello, organo nel quale una considerevole attenuazione della vitalità insieme ad una mineralizzazione, permise il risveglio della coscienza diurna di veglia, interamente volta verso il mondo degli oggetti. “Gli occhi dell’uomo si aprirono”, dice la Bibbia, “e lui riconobbe il Bene dal Male”. Allo stesso tempo, all’uomo fu dato di soffrire (“partorirai nel dolore”) e le sue membra furono consacrate al lavoro della terra (“guadagnerai il pane con il sudore”). Il progredire della consapevolezza fu comprato dall’uomo al prezzo della “caduta”, o meglio perdette la sua felicità paradisiaca e scese nel mondo terrestre attuale. Ciò che fu allora espulso, fu l’antica natura lunare, il mondo dell’antica “Luna”.

Ma lo ritroviamo, questo mondo lunare, nella linfa del papavero: tenta di liberarci, sotto certi aspetti, dall’esistenza terrestre attuale e di riportarci agli antichi stati lemurici, di spegnere in noi le esperienze sensoriali, di risuscitare la coscienza immaginativa che avevamo al tempo in cui eravamo attaccati “alle mammelle della natura”. La linfa del papavero spegne il mondo del dolore e libera le nostre membra dalla legge del lavoro. Ma ricordiamo che la “saggezza”, in cui l’uomo può trovare finalmente il sentimento della sua piena dignità, è “dolore cristallizzato;”, e che la creatività, l’avvenire, procedono dalla natura volitiva delle membra. Il soma, la bibita sacra degli antichi Indù (immagine delle modalità alimentari proprie della lemuria) non può sostituire oggi le forze digestive paralizzate. Gli enormi poteri del lattice di papavero devono indubbiamente essere messi a servizio del medico; mai devono indurre illusorie sensazioni di piacere per evadere dalla condizione terrestre.

Rosolaccio (Papaver Rhoeas)

Rosolaccio (Papaver Rhoeas)

Tanto è potente l’infiammata fioritura del rosolaccio, quanto è minuto il resto della pianta! Le foglie sono più fortemente divise, più allungate e più esigue di quelle del papavero. Anche nella rapida crescita verticale dello stelo osserviamo nuovamente la tipica spinta verso il processo della fioritura. Il bocciolo è pendulo, il fiore si raddrizza solo a metà – immagine della lotta tra pesantezza e leggerezza. Questo fiore esplode in un rosso vivo, focoso e passionale, con quattro macchie scure che formano una croce al centro (papaveri e rosolacci hanno quattro petali, da cui origina costantemente una croce). Tutta la pianta si consuma in questa fiamma floreale: la capsula si secca e si raddrizza.

Si possono qualificare i petali di papaveri rosolaccio come rossi di “zolfo”, nel senso dell’antica trilogia “Sal, Mercur, Sulfur”, che si mantiene attraverso tutti i regni naturali. Con il rosolaccio si possono preparare dei bagni che combinano l’azione stimolante dell’elemento floreale sul metabolismo, attenuando l’astralità, particolarità dei papaveri. È bene in questo caso usare anche le giovani capsule non mature. A questo proposito abbiamo una prescrizione di Rudolf Steiner.