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UN COSMO IN FORMAZIONE

Da: Giancarlo Roggero, Il Cristo nel pensiero. Immedesimazioni storico-spirituali sul mistero dei nuovi tempi. Vol 1: Cosmo e uomo in Aristotele, Edizioni Estrella de Oriente.

 

Giancarlo Roggero è stato un filosofo, un valente studioso che partendo da un’antroposofia cristianamente vissuta, l’ha molto pensata, nella relazione con la cultura di tutti i tempi. A quasi un anno dalla sua nascita al Cielo sono fiorite diverse iniziative per farne conoscere, attraverso i suoi scritti, il pensiero, sempre così ampio e profondo, lucido, articolato, autonomo e coraggioso. Anche qui vorremmo ricordarlo, a partire da alcune parole pronunciate da Benedetto Croce[1], sentiamole:

Chi apre il suo cuore al sentimento storico non è più solo, ma unito alla vita dell’universo, fratello e figlio e compagno degli spiriti che già operarono sulla terra e vivono nell’opera che compierono, apostoli e martiri, genî creatori di bellezza e di verità, umile gente buona, che sparsero balsamo di bontà e serbarono l’umana gentilezza; e ad essi tutti mentalmente si indirizza a invocare, e da essi gli viene sostegno nei suoi lavori e travagli, e nel loro grembo aspira a riposarsi, versando l’opera sua nell’opera loro.

Il Cristo nel pensiero è un’opera che si articola in quattro volumi dedicati ai filosofi che nel corso del tempo Lo hanno manifestato esemplarmente: Aristotele, Tommaso d’Aquino, i neotomisti francesi e Rudolf Steiner. Studiare il primo volume su Aristotele in un certo senso apre la strada per la comprensione dei successivi pensatori, che hanno versato l’opera loro in quella di lui.

Cosa significa questo titolo?, cosa vuol dire portare il Cristo nel pensiero? Per esempio portare un impulso di resurrezione, là dove incipientemente può venir portato, cioè nel pensiero dell’uomo, che è cadaverico, esangue, astratto, teorico, avvenendo su base materiale – grazie al cervello chiuso nel suo cranio (il Sepolcro, il Golgota) e alla percezione dei sensi. A questo pensiero riflessivo non si rivela la realtà delle cose, lì le vediamo in uno specchio enigmaticamente, mentre al pensare risorto si manifestano faccia a faccia e quindi si possono conoscere nella loro realtà. I filosofi greci erano già vicini al cristianesimo: pensiamo a Socrate, al valore che dava al dialogo nella ricerca conoscitiva, al suo rapporto col daimon e alla morte da martire …della verità. E poi la filosofia greca è giunta per prima a scoprire il Logos – che si fece carne nel sottoperiodo greco-latino –, e quindi l’uomo di quel tempo stava anche lui “atterrando” e stava acquisendo una Ragione capace di rispecchiare la logica presente nella realtà terrena, di pensarsi un po’ meno il Cielo e un po’ di più questa Terra, sempre più apprezzabile, seppur meno ordinata rispetto al cosmo, meno perfetta e in continuo divenire. Il pensiero di Aristotele in particolare è estremamente logico, consequenziale, capace di cogliere l’essenziale della manifestazione, ricercandone le leggi ordinative.

Aristotele è poi già “cristiano” nel modo scientifico in cui guarda alla natura, con l’interessamento – una forma iniziale di amore – che egli riserva ai fenomeni singoli del vivente e dell’esistente, al più piccolo esemplare dei molluschi, che va a cercare sulle spiagge di Mitilene col giovane allievo Teofrasto; e componendo poi l’Historia Animalium, il primo trattato di zoologia sistematica della storia, col metodo della morfologia comparata, che porta a rilevare l’analogia funzionale tra le braccia dell’uomo, le zampe anteriori dei quadrupedi e le ali degli uccelli, o tra le ossa degli animali superiori e le spine dei pesci[2].

…Forse è opportuno chiedersi cosa significhi pensare cristianamente per un filosofo o anche per l’uomo comune. Mettendo in guardia da una vena gnostica, presente anche nell’antroposofia, che tende più a valorizzare quanto è cosmico, universale o, trattando dell’uomo, l’Io che permane di incarnazione in incarnazione, ecc., Roggero sottolinea il sacrosanto rispetto per la singola persona umana, avente un’esistenza personalissima, rimessa in ultimo alla sola bontà di Dio e salvaguardata dal mistero della Grazia. Come a dire, in antroposofese, portare rispetto per la persona che vive la singola vita sulla Terra, dar valore anche a questo nostro aspetto microcosmico diciamo. Presso gli antichi, precristiani, non poteva ancora esistere niente di tutto ciò, il Cristo cominciava sì a illuminare le menti, ma non ancora a riscaldare i cuori delle menti illuminate!, perché tutte le persone…meritano di essere amate, indipendentemente da quale sublime Io superiore stia loro dietro o lassù. Gli antichi aspiravano a conoscere anche dell’uomo l’essenza impersonale, macrocosmica che pure sussiste, di pertinenza non solo umana ma cosmica, come una superiore natura entro la natura[3]. Solo con Tommaso d’Aquino diverrà chiara questa distinzione tra esistenza ed essenza, verrà valorizzata la prima e potrà maturare anche una teologia che guarda, riamandolo, al Dio creatore che per primo da sempre e per sempre ama il più “piccolo” degli uomini, si muove verso di lui al punto da inviare Suo Figlio in aiuto, sacrificandoLo. I tempi di Aristotele non erano ancora maturi per questa comprensione – per la quale è indispensabile quel si fece carne, facendo poi della Terra il suo Cielo – e infatti il suo primo motore immobile è come un Sole freddo, che ha come somma caratteristica di pensare di continuo perfettamente a se stesso, che non si muove dal suo centro dell’universo ma, desiderato, fa muovere gli altri verso di lui, e così tutta la creazione. Non si può pretendere da Aristotele ciò che non può dare, e tuttavia lo si può apprezzare appieno, riconoscendo in lui gli sforzi di un pensatore posto al bivio.

Non a caso il terzo capitolo conclusivo di questo volume, che riguarda l’uomo come essere morale, si intitola L’uomo aristotelico al bivio. Fermo a questo bivio si può vedere, evocando un’immagine dei Vangeli, l’uomo mezzo morto tra Gerusalemme e Gerico, che lì a metà strada del grande percorso evolutivo della Terra incontra il Samaritano, uno straniero, un extraterrestre che si prende cura di lui e delle sue ferite. Al bivio della possibilità della libertà e del risanamento, di rialzarsi dalla caduta e di risalire, l’umanità intera ha incontrato il Buon Samaritano e lungo i millenni successivi potrà, se lo vorrà, sviluppare la capacità di farsi Samaritano. Ma questo in Aristotele (Stagira, 384-383 a.C. – Calcide, ottobre 322) può essere presente solo in modo germinale.

Già un po’ cristiano è il suo modo di guardare alla storia, che si schiuse negli ultimi anni della sua esistenza come una primizia, un frutto precoce che solo fa presagire una succosa maturità futura. Il senso di un debito reverenziale verso i beni che la storia umana ci tramanda. […] La conoscenza storica non è un mero raccogliere e assimilare: conosciamo la storia in quanto rifacciamo attivamente nel nostro spirito ciò che da altri è stato fatto […]. Nella conoscenza storica intellezione e ragionamento restano intatti in quanto essenziali al conoscere umano, cui si aggiunge il volere che aderisce con discriminazione morale al volere espressosi nella storia. In tal senso lo storico Polibio, che dietro l’esempio di Tucidide si reca sui luoghi degli eventi per poterli rivivere e quindi raccontare, è un continuatore di quella vena dell’opera aristotelica dischiusasi appena, come un pullulare tardivo, dalle fonti riposte del suo divenire.

Bisognava che, oltre i confini della vita, grandeggiasse la presenza del Primogenito dei morti, affinché il rapporto di questi coi viventi sulla terra partecipasse della Sua bontà comunicativa, nutrendosi del più piccolo e segreto dono di sé[4].

Aristotele allora vuol comprendere il mondo – partendo dal cosmo, passando dai regni di natura per arrivare all’uomo – e sa abbracciare la complessità di Cielo e Terra[5], ricercandovi il Logos nelle leggi che vi operano unitariamente.

Diversamente dal maestro Platone che ancora viveva nei concetti, nelle idee, e ancora un po’ nei miti tramandati dall’antica sapienza dei misteri, Aristotele è il primo scienziato moderno chiamato ad emanciparsene. Fa a meno della visione e allora il senso principe – molto terreno! – per indagare la realtà diviene il senso del tatto. Infatti i concetti, le idee care a Platone, come li chiama Aristotele? Li chiama “forma” (morphé), quella caratteristica che si svela non solo alla vista ma anche al tatto. …Non è un cambiamento solo di termine, fa notare Roggero, ma di concetto. Mentre per Platone l’idea è separata dalla materialità e del tutto trascendente la materia, per Aristotele tutti i corpi, anche quelli “semplici” come gli elementi, sono composti di materia e di forma: non esiste mai sola materia o sola forma, sono sempre unite. Diverse forme per esempio sono argento, rame, quarzo, rosa, viola, giglio, cane, leone, aquilaForma e materia sono nozioni complementari: la prima che determina la natura degli elementi e delle specie esistenti sulla Terra nei diversi “regni”, la seconda che consente alle diverse specie di realizzarsi in individui singoli, separati e non solo distinti tra loro, e che sarà detta perciò “principio di individuazione”[6]. Il senso del tatto (come pure tutti quanti i sensi) può esplorare le sostanze, cioè i composti di materia e di forma, ma ciò che di un certo essere si dà a noi a partecipare in virtù della facoltà sensitiva non è l’intera sua sostanza, il composto di forma e materia per le quali esso esiste nella propria singola esistenza, bensì la forma soltanto. Il che sarà compendiato nella formula lapidaria: «non la pietra è nell’anima, ma la forma della pietra»[7]. La portata di questo principio, che sembrerebbe banale, è in realtà immensa[8]. E noi ne riparleremo tra poco, trattando della facoltà sensitiva e di quella intellettiva.

Al più terra-terra dei sensi, al tatto, che ha come mezzo la superficie dello stesso corpo umano nella sua intera estensione – cui è dato percepire una varietà di qualità sensibili più ricca rispetto agli altri sensi – ecco che si manifestano i contrari, cioè caratteristiche che si escludono tra loro: una cosa, qualsiasi cosa, è calda o è fredda (e non può esserle entrambe), è secca oppure umida – già a partire dalle sue componenti più semplici, dagli elementi: fuoco, aria, acqua e terra.

Leonardo da Vinci - i cinque solidi platonici

Leonardo da Vinci disegna i cinque solidi platonici (nell’immagine sono presentati in una sequenza non ordinata): tetraedro (fuoco), cubo (terra), ottaedro (aria), dodecaedro (etere), icosaedro (acqua)

 

Platone questi quattro elementi (più il quinto, l’etere) li immaginava come solidi, appunto i solidi platonici, Aristotele vi nota i contrari, passando ad osservare, dal Cielo, la Terra. Tutto quanto muove e trapassa sulla Terra deriva da ciò che lassù non trapassa, poiché muove di moto perfetto e costante. La Terra starebbe immota al centro dell’universo, mentre i quattro elementi che la compongono si manifestano soggetti, oltre al moto rettilineo di traslazione da luogo a luogo, a un altro tipo di movimento concernente la loro natura, nella sua possibilità di trapassare in un’altra: il movimento di generazione e corruzione che si svolge in tutto l’ambito terrestre e per il quale questo si distingue dai cieli di natura incorruttibile. “Corruzione” significa offrire il proprio sostrato alla realizzazione di un’altra forma: una nuova sostanza viene generata. Il minerale si disgrega e dà origine a nuove specie minerali, il vegetale marcisce e dai suoi detriti si formano nuovi minerali o crescono nuove piante, l’animale si decompone e così via…

Il primo moto di generazione e corruzione è quello per cui gli elementi stessi possono trasmutarsi l’uno nell’altro e sono proprio i contrari a causare l’instabilità nell’essere degli elementi terrestri. All’interazione delle diverse e opposte qualità costituenti la natura dei quattro elementi si attribuisce la causa del loro trasmutarsi reciproco[9]. Aristotele ne parla nel De generatione et corruptione e nella Meteorologia.

Vi è poi un quinto elemento che è l’etere, la cui materia scorre continuamente (aeter significa questo) essendo attuata così perfettamente nella sua forma da non comportare, nella sostanza che ne risulta, alcuna possibilità di contrari, e perciò di corruzione e trapasso. Il quinto elemento sorpassa la natura dei primi quattro, è già celeste, infatti è la materia che fa da sostrato alla natura dei Cieli, così che Sole, Luna, pianeti e stelle fisse permangono eternamente se stessi.

La perfezione è dei Cieli, mentre quaggiù tutto è in divenire; là c’è massima attualità, qui c’è potenzialità ad attuarsi: potenza e atto è un’altra polarità fondamentale e dalla portata più ampia che mai del pensiero aristotelico, concernente l’essere in tutti i suoi possibili modi, e illimitata perciò nella sua applicazione[10].

Quindi anche passando a trattare dell’uomo – sia nella sua organizzazione, sia nella sensazione, intellezione e infine volitività – potenza e atto giocano un ruolo fondamentale. Nel percepire – sentire non tanto se stessi, ma qualcosa di estraneo che agisce e si fa presente – il senso viene attivato o attualizzato da un altro ente che è già in atto, secondo il principio che nulla può passare dalla potenza all’atto se non per qualcosa che già sia in atto.

Attraverso i sensi l’uomo è solo in potenza capace di divenire altro da sé, pur restando quel che è in forza della propria natura sostanziale[11]. Questo divenire altro da sé si realizza solo parzialmente attraverso il sensorio: in virtù della facoltà sensitiva partecipiamo non dell’intera sostanza delle cose, composta di forma e materia, bensì della sola forma. L’atto di questa non sarà qualcosa di diverso dallo stesso atto della forma sensibile con le sue qualità sensibili. Come detto: non la pietra è nell’anima ma la forma della pietra.

Nel conoscere, il divenire altro da sé si perfeziona e giunge a compimento[12]. La funzione intellettiva (noetikón) perfeziona e trascende in un’attività superiore, nell’uomo, la facoltà sensitiva che egli ha in comune con l’animale. La natura essenziale, ciò per cui l’essere conosciuto è quel certo essere – o sostanza – che la possiede in proprio, e non solo un succedersi di fenomeni in continuo movimento e trapasso, questa natura non è data a cogliersi se non da una facoltà che prescinda del tutto dalle condizioni materiali dell’esistenza, per non attingere che la sola “forma” delle cose, la loro stessa natura o essenza. Attingendola però non nel modo in cui essa vive nelle cose di esistenza singola, ma in una dimensione di universalità, di cui l’intelligenza sola è capace. Col suo atto, l’intelligenza guadagna in universalità, ma perde quanto a valenza esistenziale, di cui i sensi conservano, se non la natura, almeno gli effetti[13].

Quindi la forma portata nell’anima, questa volta, dall’intelletto, in virtù di quale atto attiva l’anima a divenire altro da sé? Anzitutto l’intelligenza può cogliere l’essenza intelligibile delle cose perché è in potenza rispetto ad esse. Non potendo darsi un passaggio dalla potenza all’atto se non mediante qualcosa che sia già in atto, occorre supporre all’interno dell’anima una qualche attività per la quale l’intelligibile in potenza lo diventi in atto. È quello che Aristotele chiama intelletto agente (noûs poietikós) il quale si rapporta all’intelletto che è simile a una “tavola non scritta” come la forma alla materia, o meglio la luce ai colori. La sua azione è perciò paragonabile a quella di un lume che splende perpetuo all’interno dell’anima[14].

…E come stanno le cose sul divenire altro da sé (cioè da come si è, e divenirlo poco alla volta) nel volere umano? Anche qui ci sono potenza e atto, ma a metà strada compare qualcos’altro, nel superare attivamente delle polarità interiori, le passioni, …e anche qui Aristotele alla moralità vera e propria ancora non può arrivarci. Ma procediamo con ordine, ci serve ancora un po’ di concentrazione per questo pensiero conclusivo del nostro lavoro, …ancora qualche paginetta per trattare di quelle che Aristotele chiama le virtù.

Secondo quanto dirà anche Steiner, non solo il mondo, ma anche l’uomo, è risultato di processi di equilibrio[15] tra polarità contrapposte. Ognuno di noi, per esempio, può già fare un’esperienza dell’io a partire dalla sua corporeità: mettendo insieme l’uomo di destra con l’uomo di sinistra. E infatti il gesto universale di unire le mani in preghiera manifesterebbe questa capacità di portare un terzo elemento in ciò che è solo duale, di aggiungere qualcosa lì in mezzo al due. Quindi in fondo la sua fisicità gli insegna a fare questo: incipientemente a superare le polarità che sono in lui, grazie al fatto di avere due occhi e focalizzare, due mani appunto da congiungere, due nasi, due orecchie, perché anche con l’olfatto e l’udito di continuo unifichiamo le percezioni che ci provengono dai due lati.

Invece, in quello che in noi non è saggia fisiologia? Come possiamo cominciare autonomamente, volitivamente, dinamicamente a equilibrarci? Per esempio esercitando le virtù. Anche qui è prezioso Aristotele, che ha individuato la virtù nel giusto mezzo tra passioni polari: è un equilibrio che va attuato, che non esiste se l’uomo stesso non si attiva. Per Aristotele le virtù non sono solo sette come per Platone, ma si moltiplicano! Ogni esperienza dell’anima e della vita è un’occasione per l’uomo di far sorgere virtù. Mettiamo qui uno schema[16] per cominciare a farci un’idea di questa medietà, tra poco lo riprendiamo.

Passione

Passione

Virtù

Iracondia Impassibilità Mansuetudine
Temerarietà Viltà Coraggio
Imprudenza (impudenza) Timidezza Verecondia
Intemperanza Insensibilità Moderazione
Invidia Malevolenza Sdegno (indignazione)
Guadagno Perdita Giusto
Prodigalità Avarizia Generosità
Millanteria Ironia Veracità
Adulazione Ostilità Amorevolezza
Compiacenza Superbia Serietà
Mollezza Grossolanità Fermezza
Vanità Piccineria Magnanimità
Fastosità Meschineria Magnificenza
Furberia Ingenuità Saggezza

 Invece anche per la morale Platone procedeva in maniera verticale, sono solo quattro le Virtù Cardinali: Prudenza (o Sapienza), Fortezza (o Coraggio) e Temperanza, belle gerarchicamente ordinate e infine la Giustizia, raggiungibile quando ci fossero tutt’e tre le precedenti, ben armoniche tra loro. Poi, sempre tendendo al Cielo, si aggiungono le tre Virtù Teologali (Fede, Speranza e Amore).

Raffaello Sanzio, Scuola di Atene, particolare

Raffaello Sanzio, Scuola di Atene, particolare

…Ecco che ne spunta un’altra, di dualità: quella di platonici e aristotelici[17]! Che infatti vedono il mondo in modo polare: danno origine a due visioni del mondo e hanno parzialmente ragione entrambi. Anche Raffaello doveva sapere (lo ha espresso nel gesto dei due filosofi) che i primi sono strafelici quando …le cose vanno verso il Cielo, si librano dal piano orizzontale e si verticalizzano. Tu disegnagli un triangolo con il vertice verso l’alto e si illumineranno! In alternativa, per loro, ciò che ha valore deve essere “profondo”. …E gli aristotelici? Beh loro si sciolgono per la parola “orizzontalità”, questa bella orizzontalità da serpente verde che non ti fa schizzare in percorsi estatici da fuochi fatui (o nella teoria degli eruditi[18]) e nemmeno sprofondare nella mistica, ma ti fa restare umilmente terra-terra da dove è sano partire e dove da uomini incarnati realmente siamo.

Anche qui urge una mediazione!, perché l’aristotelico da solo non va da nessuna parte, e neanche il platonico da solo: devono integrarsi, dialogare, completarsi a vicenda. Proprio come li ha ritratti Raffaello, aventi tutt’attorno le rispettive scuole. Persino Goethe, che per essere un platonico era sommamente aristotelico, aveva a fianco il suo Schiller come integrazione feconda. Quindi: dialoghiamo col nostro amico diverso da noi, platonico se noi siamo aristotelici e viceversa, impariamo da lui.

Per Aristotele – che cerca l’universale non perché ritenga sia “meglio” del particolare, ma per arrivare a conoscere il particolare, che percepisce e che lo interroga – l’universale sorgente di ogni moralità è …la facoltà dell’uomo a divenire virtuoso. Ne parla nell’Ethica Nicomachea. Non ci sono tanto singole virtù, quanto una facoltà pienamente umana a divenire virtuoso, presente in potenza in ogni uomo – da esercitarsi però, perché dalla potenza deve passare all’atto, all’attualità, all’attività… La caratteristica delle virtù etiche è che, diversamente dalle virtù dianoetiche (tra le quali la saggezza regolatrice della vita pratica), non possono essere semplicemente apprese: vanno esercitate, conseguendo una abitudine ad esse. Queste hanno valore direttamente sociale e, come avviene per le arti, dice Aristotele: le apprendiamo facendole, divenire virtuosi è come diventare costruttori o suonatori di cetra.

A metà tra potenza e atto, la virtù (areté) è una disposizione per la quale la potenza è facilitata ad attuarsi, ovvero una certa facoltà ad esplicarsi nell’attività che le è propria[19]. Come a dire: esercitarsi è un migliorare il terreno, sul quale poi seminare i semi delle virtù, con speranza sempre maggiore di attecchimento. E qui entra in gioco la volontà: puoi volere il vizio (o meglio: il vizio vuole in te qualche cosa, quindi casomai la desideri, ne sei attratto e ti lasci calamitare), oppure puoi volere la virtù e allora ti devi muovere tu. E più ti eserciti, più diviene un’abitudine, una disposizione, una seconda natura.

Nessuna delle virtù etiche nasce in noi per natura, nulla infatti di ciò che esiste in natura può assumere abitudini ad essa contrarie. Ad esempio la pietra che per natura tende verso il basso non può abituarsi a tendere verso l’alto, neanche se la si volesse abituare gettandola in alto infinite volte. […] Di conseguenza non è né per natura né contro natura che le virtù nascono in noi, ma ciò avviene poiché per natura siamo atti a farle nostre, e ci perfezioniamo poi mediante l’abitudine[20].

Se è in nostro potere, almeno relativamente, determinarci a volta a volta a questa o a quell’altra azione, meno lo è invece mutare una disposizione, virtuosa o viziosa, una volta che l’abitudine l’abbia determinata nell’uno o nell’altro senso[21].

Osserviamo ora lo schema delle virtù (quello che comincia con: Iracondia/Impassibilità-Mansuetudine) che presenta di seguito le due passioni polari, yang e yin, e poi la virtù equilibratrice.

Guariento di Arpo, Arcangelo Michele

Guariento di Arpo, Arcangelo Michele

Questa medietà delle virtù non è una situazione di compromesso tra le passioni polari, ma un reale superamento di entrambe. Quindi non è che se mi do una semplice spintarella dall’altra parte mi equilibro… chessò sono fondamentalmente timido e allora faccio l’impudente, lo sfrontato in qualche occasione (oppure vivo nell’occidente materialista, però vado a fare yoga): la verecondia non nasce così, perché… ora lo dico da platonico: la virtù è come se si trovasse su un altro piano, va artisticamente creata mettendoci dell’altro, degli antiveleni a timidezza e sfrontatezza, portandoci l’umano. Cominciando a portarci il Buon Samaritano, ecco. Nella volizione morale la facoltà si determina all’atto, secondo un principio che procede dal suo soggetto, che diviene capace di determinare se stesso. Di darsi una forma. È l’inizio di una nuova essenza in perpetua formazione (non è più Arimane o Lucifero in noi) è una primizia di vita, come la chiama Roggero, che si accosta all’uomo col generarsi del volere umano. Qualcosa di nuovo e di rivoluzionario sta nascendo, a quel bivio di natura etica: non più rispecchiamenti di perfezioni celesti, ma creazione a nuovo. Uomo e cosmo, in questa primizia di vita, vengono scissi in due direzioni di destino la cui differenza è quella tra un mondo antico e grandioso che muore, e un mondo nuovo e inapparente che nasce[22]. Ecco come il libero arbitrio può venir, molto lentamente, trasformato in libertà, come i contrari portatori di un dinamismo di generazione e corruzione, possono essere occasione di generare l’uomo nuovo dalla loro corruzione: un divenire altro da sé che è una creazione artistica.

…E quindi essenzialmente quel virtuoso lì non patisce più né la timidezza né la sfrontatezza, perché attivamente le redime entro di sé: la verecondia – che in lui si crea a nuovo tramite esercizio artistico – è la virtù “liberatrice”, lo libera dalle opposte passioni, che altrimenti subirebbe. Andrebbero riscoperte queste virtù, perché oltretutto in qualche caso nell’uso corrente della lingua italiana i relativi concetti si vanno perdendo. Prendiamo proprio la verecondia: se fosse vero quel che dice la Treccani, che è un timore di venir rimproverati, o che è sinonimo di pudore, non sarebbe una virtù! Il pudore è un sentimento umano (negli animali o nei bambini piccoli non c’è) che nasce naturalmente molto presto nella storia umana e nella biografia. Se la virtù invece appartiene a un altro piano, è una eccellenza rispetto alla natura, la verecondia sarà piuttosto la manifestazione di un carattere sacro scoperto nella propria interiorità, un “meglio di noi” che diviene conscio, con un corrispondente senso di rispetto per quanto è sacrosantamente privato, in me e nell’altro, perché ci tutela entrambi. Questa parte non può venire sbandierata e data in pasto senza ritegno, e nemmeno le si può impedire di entrare nella relazione con l’altro uomo, trattenendola con la timidezza, …perché invece lì è fondamentale: nell’incontro. La verecondia, osiamo!, è un senso del confine, di quel confine che quando è chiaramente tracciato evita le guerre tra gli Stati, che distingue me e l’altro da me, e che permette su quella linea sacra di confine (come una pelle, un involucro protettivo), la relazione, lo scambio, l’incontro umano – che avviene anche spostandola un pochetto quando serve, dinamicamente.

Prendiamone anche solo un’altra, di virtù, ma sono tutte interessantissime: Millanteria/Ironia-Veracità. Verace è colui che si manifesta né più né meno per quello che è, è l’uomo autentico, che non si vanta con vanagloria e nemmeno si nasconde, sminuendosi. Questo dovrebbe essere il senso della parola ironia, che nelle sue radici greche significa dissimulare.

Già realizzare tutto questo sembra un compito arduo, no? Saper incarnare mansuetudine, coraggio, verecondia appunto… eppure c’è tanto di più!, tanto d’altro ancora per manifestare lo Spirito libero che ha da nascere in noi, come il germe di rosa è chiamato a divenire rosa. Giancarlo Roggero ci fa notare una cosa importantissima in tema di etica, che gli studiosi della Filosofia della libertà avranno già rilevato. Aristotele anzitutto ravvisa nell’uomo morale la presenza di qualcosa che, per la sua interiore e multiforme ricchezza, è paragonabile a un cosmo. Anche Kant noterà questa affinità: il cielo stellato sopra di me e le legge morale dentro di me. Ma anziché trattarlo come quel cosmo in formazione che si annunzia nell’originalità di un sempre nuovo agire, lo tratta come il cosmo già formato, il cui agire è predisposto in origine nell’intenzione prima della natura. Tratta, come se già fosse, qualcosa che ancora non è.

Come a dire, la moralità non è ancora questa!, non è che se tu sei mansueto, coraggioso, e allora sei già un essere morale …questa in fondo sarà sì la virtù ma non è ancora la moralità, siamo ancora ai presupposti della moralità, al sapersi autodeterminare nelle varie situazioni di vita. La moralità, che è libertà e amore, è poi una creazione sempre nuova, possibile quando l’umano si emancipi dai vincoli della dualità, sviluppando così, nell’equilibrarsi, le forze umane per volere in autonomia, creativamente.

Se Aristotele avesse potuto accorgersi della portata di tutto questo, avrebbe inaugurato con secoli di anticipo una nuova era della storia spirituale, scoprendo una forma dell’essere che non è quello naturale per cui esistono sostanze nell’universo, né quello conoscitivo per cui esse si danno a partecipare immaterialmente l’una all’altra, ma qualcosa di originale la cui essenza è di essere in formazione perpetua […] è l’inizio di un nuovo essere la cui determinazione è ancora riposta nel segreto del cuore umano[23]. Se Aristotele avesse potuto accorgersi della portata di tutto questo …avrebbe scritto la seconda metà della Filosofia della libertà. La vita morale, affinché sia tale, non fa di me un automa della moralità, per cui in quella situazione lì reagisco sfoderando la generosità, la magnanimità, l’indignazione, ma suppone una discriminazione ultima, in cui l’una o l’altra virtù possono concorrere, senza necessitarmi a loro volta.

Perché, come dice il capitolo 9 di Fdl, al par. 23: «vi è qualcosa di più alto, che non parte nel caso singolo da un determinato e singolo scopo morale, bensì dà un certo valore a tutte le massime morali, e in ogni dato caso domanda sempre se in quel caso sia più importante un principio morale oppure l’altro […] Ma solamente quando tutte le altre ragioni di determinazione passano sullo sfondo – …è come un mettere fuori fuoco il dipinto mentre lo dipingi, in un’atmosfera di fantasia morale, e allora vedi dell’altro – viene in primo piano l’intuizione concettuale stessa. Tutti gli altri motivi allora scompaiono dalla posizione dominante e solo il contenuto ideale dell’azione agisce come motivo di essa».

 

Si ringrazia vivamente l’editore di Estrella de Oriente, per aver curato, stampato e per continuare a mantenere a catalogo, e quindi fruibili, questo e altri preziosi libri di Giancarlo Roggero.

 

 

[1] “Antistoricismo”, lettura tenuta il 3 settembre 1930 a Oxford

[2] p.101 nel volume su Aristotele. Se non indicato altrimenti, le citazioni che seguono in corsivo sono di Giancarlo Roggero

[3] p.123

[4] p.120-123

[5] Il giovane Aristotele arriva all’Accademia di Platone e ha come maestro il geografo e astronomo Eudosso di Cnido, per i particolari che l’allievo svilupperà nella sua originale cosmologia si rimanda al primo capitolo del libro: Genesi e consistenza del cosmo aristotelico

[6] Ivi, pp.38-39

[7] Aristotele, De anima, III, 8

[8] p.66. Si può portare questo pensiero, per esempio, nello studio del capitolo 4, Il mondo come percezione, della Filosofia della libertà.

[9] p.48

[10] p.62

[11] p.65

[12] Io sono dunque realmente le cose …in quanto sono una parte del divenire generale del mondo. Filosofia della libertà, Cap 6, par.1

[13] p.70

[14] p.71. Franz Brentano, professore di Rudolf Steiner, fu studioso di Aristotele, e in particolare di questo nous poietikos. Steiner anzitutto ne faceva esperienza, del fatto che l’intelletto agente vive entro l’anima (“un organo della vivente vita dell’anima […] un campo di esperienze dell’anima in cui la domanda, in virtù dell’attività interiore dell’anima, tornerà ad avere una risposta viva”, prefazione del 1918, par.3) e nella Filosofia della libertà ha messo a punto un metodo perchè possiamo sperimentarlo anche noi. Aristotele a sua volta ne faceva esperienza e, nella storia, la sua è la prima testimonianza di questa attività pensante, del pensare attivo, volitivo, vivo perché risorto, che è a fondamento appunto della Filosofia della libertà.

[15] Col titolo Il mondo come risultato di processi di equilibrio, l’Editrice Antroposofica ha pubblicato tre conferenze dell’O.O. 158.

[16] p. 87 nel testo, l’elenco compare nell’Ethica Nicomachea, dove l’autore invita il lettore a “prender visione dei casi elencati in questa tabella”.

[17] Steiner ne parlò nel ciclo sui Nessi Karmici. Per approfondimenti si veda anche: Ita Wegman, Discepoli alla luce di Michele. Scritti sulla storia spirituale dell’umanità, Edizioni “TreUno”.

[18] Alla Fiaba di Goethe Rudolf Steiner dedicò parecchie conferenze e ne scrisse, si possono trovare qui tutti i riferimenti: https://www.liberaconoscenza.it/zpdf-doc/conferenze/steiner%20-%20la%20fiaba%20del%20serpente,%20app.2,%20riferimenti%20nella%20ga.pdf

[19] p.83

[20] Aristotele, Ethica Nicomachea, I,7

[21] Roggero, p.85

[22] p.83

[23] p.86